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Channel: POETAS SIGLO XXI - ANTOLOGIA MUNDIAL + 20.000 POETAS: Editor: Fernando Sabido Sánchez #Poesía
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FEDERICO SCARAMUCCIA [10.754]

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Federico Scaramuccia

FEDERICO SCARAMUCCIA 

Nació en La Spezia, ITALIA   en el 1973. Actualmente vive en Milán y enseña en una escuela secundaria del Hinterland. Ha publicado algunos libros de versos, entre los cuales “ Come una lacrima” vencedor del premio de literatura “I miosotìs”




COMO UNA LÁGRIMA

(Fragmento)

un ruido sordo las llamas el incienso
inmundo queda un silencio
 en el profundo del vientre un hambre
que las llamas dentro confunden

no queda nada sólo una ruina
una sombra neta de las formas vanas
se planta en el pecho como una cruz
inclina el rostro quiebra la voz
un grito confuso un silencio roto
un llanto se sofoca en el sollozo
un puño insulso que aprieta con ira
se desgrana como si fuese arenilla
un desahogo convulso que congela
un nudo que se derrite como cera
y el cielo en llamas aún se estremece
la vida regresa a la tierra en cenizas
se columpia en el aire un poco decaída
hasta  que no se posa suave y nívea
desciende lentamente sin reposo
aún caliente se encaja en el dorso
se pega en la piel como una mancha
como un viento frio un soplo que rasga
como una lima que frota y frota en delirio
pequeñas astillas enloquecidas de vidrio
se hunden en la carne herida la faz
 enmudecido permanece a escuchar
rendido al silencio de un nudo a la garganta
como una mano al cuello que no cesa
un dolor agudo que llega al corazón
una punzada breve un hachazo
sobre el cielo blanco se alzan las llamas
cortando la oscuridad afilando las cuchillas
comiendo aquello que aún resta
arden por la fiebre por el hambre
un hambre que ceba y no sacia
nutre la carne y con la mordida la desgarra
se resbalan agachadas entre las ruinas
ávidas escurren por venas y arterias
estrangulan el ánima dentro una vorágine
oprimen en el vientre buscando una salida
surgen al fin del hueco del foso
entre resoplo de fumo y salpicaduras de rojo

se mece en el viento ahora ya menguante

triunfa sobre el tiempo un enjambre
de llamas que irrumpen dentro
un viento de cobre y de plomo

 TRADUCCIÓN:  Alejandra Crules Bretón
http://circulodepoesia.com/








FEDERICO SCARAMUCCIA è nato a La Spezia il 14 marzo 1973. Attualmente vive a Milano e insegna in una scuola media dell’hinterland. Presente in volumi e riviste con testi critici e poetici, ha pubblicato alcuni libri di versi, tra cui Come una lacrima (d’if 2011), vincitore del premio di letteratura “i miosotìs”. Ha inoltre curato l’edizione critica delle Rime di Gaspara Stampa, in uscita entro la fine del 2013 per la Società Editrice Fiorentina.



In Come una lacrima (collana “i miosotìs“, Edizioni D’If) si assiste a un dramma in due atti sul dolore che (ar)resta, il dolore centrato sull’11 settembre 2001, il dolore reale delle vite spezzate e il dolore virtuale che è stato trasmesso e mediaticamente manipolato in tutto il mondo: un’onda d’urto emotiva e un ritorno di fiamma ripresi e diffusi dall’ “anaeuforico” occhio televisivo, e al tempo stesso filtrati dall’impalpabile e diafana boule de neige della lacrima (la macchina da presa per eccellenza) che tiene in scacco la globalità.

Daniele Ventre





Come una lacrima

(duemila uno)



PROLOGO

gente di corsa al principio del giorno
non ne attende l’arrivo né il ritorno



si dondola al vento ormai in panne
in trionfo sul tempo uno sciame
di fiamme che irrompono dentro
un vento di rame e di piombo



GUARDA LASSÙ QUALCOSA MACCHIA IL CIELO
buca l’azzurro lasciando una traccia
non nuvola per ora appena un velo
come una lacrima che non si stacca
appanna gli occhi in volo all’orizzonte
appena uno sguardo sulla minaccia


CORO
un segno lontano forse una faccia
chi col dito puntato all’orizzonte
fa cenno con la mano chi si sbraccia



GUARDA POSA IL VOLO ECCOLO ECCO ATTERRA
posa il volo ma non abbassa le ali
si posa prima di toccare terra
ancora in volo prima che si incagli
si posa solo quando il cielo splende
quando con rabbia ne brilla la carica


CORO
abbraccia la morte piegando le ali
si avvinghia alla vita mentre si arrende
con rabbia che avvolge ma non si scarica


(UN’ECO CHE DEFORMA IN SOTTOFONDO)
(le braccia storpie piegano sui tagli)
(blindano la vita che si distende)
(che si contorce come in gabbia invalida)


GUARDA CHE TUFFO NEL VUOTO CHE STILE
si gettano in braccio al vento un impulso
un tuffo forse cento forse mille
è il corpo che suda stretto nel morso
della fiamma è la sua pelle che gocciola
è carne viva che chiede soccorso


CORO
ancora un sorso ho sete ancora un sorso
ancora un soffio ho fiato ancora soffoco
ancora un morso ho fame ancora un morso


GUARDA CHE PECCATO IL CIELO SI COPRE
è il giorno che si annebbia e si dissolve
è la sua luce svanita che soffre
che sfuma in una nuvola di polvere
sepolta sotto un cumulo di cenere
come una lacrima che non si assorbe


CORO
in cielo un’immensa nube di polvere
rimane sospesa densa di cenere
e stinta la fiamma non si dissolve



GUARDA CHE NOTTE CHE LUCE LE TENEBRE
è una notte bianca priva di stelle
è il giorno avvolto nel sonno che geme
scosso da un brivido sotto la pelle
è un incubo l’inferno all’improvviso
una luce soffusa un fior di scheletro


CORO
la notte fonda ha i nervi a fior di pelle
qualche volta si accende all’improvviso
sono grida però non sono stelle



CONGEDO
come una lacrima rimane un velo



un tonfo le fiamme l’incenso
immondo rimane un silenzio
e in grembo giù in fondo una fame
le fiamme che dentro confondono



RIPRESA
non ancora sereno ancora un velo
una buca in terra una macchia in cielo



non resta nulla soltanto un rottame
un’ombra netta dalle forme vane
si pianta nel petto come una croce
piega a terra il viso spezza la voce
un grido confuso un silenzio rotto
un pianto che soffoca nel singhiozzo
un pugno insulso che stringe con rabbia
che si sbriciola come fosse sabbia
uno sfogo convulso che congela
un nodo che si scioglie come cera
è il cielo in fiamme che continua a fremere
la vita che ritorna a terra in cenere
si dondola nell’aria un poco stanca
finché non si posa soffice e bianca
scende lentamente senza riposo
ancora calda si appiccica addosso
si attacca alla pelle come una macchia
come un vento freddo un soffio che graffia
come una lima che va avanti e indietro
piccole schegge impazzite di vetro
affonda nella carne sfregia il volto
che ammutolisce restando in ascolto
reso al silenzio da un groppo alla gola


[...]

un filo di voce a torto compressa
un soffio appena una voce sommessa
una voce roca che toglie il fiato
un filo ben stretto come un cappio
una voce che lotta che gorgoglia
che a volte si blocca e avvolta si imbroglia
la fiamma incerta che dal ventre guizza
che trova un varco che appena si drizza
la punta che trema e balbetta stanca
che vibra nell’aria come una lancia
è un cratere buio che ancora fuma
che nasconde la luce che imprigiona
come lo sguardo che ancora si annebbia
che nessuna lacrima ormai raffredda
una pioggia calda che non si estingue
che annaffia gli occhi e concima le lingue
che bagna la terra e secca nel fango
come un naufragio un abbraccio che strangola
un dolore sordo che non ascolta
condanna chiunque e sotterra la colpa
una bocca ingorda giudice e boia
si apre e non parla poi si chiude e ingoia
fra le macerie spunta solo un fiore
un fiore reciso senza colore
fra le macerie solo un fiore posa
una pianta rossa forse una rosa
è un sepolcro che rimbomba di colpi
bussano alla vita sperando ascolti
non è più il crollo né il cielo che piange
è il fronte che esplode della falange
che fa silenzio che in ombra si infrange
che monta a neve che in onda rifrange
la voce raccolta nella preghiera
che si alza in volo che in aria dispera


[...]

i corpi gettati come rifiuti
lasciandosi andare freddi e fonduti
corpi che sfilano reflussi d’ossa
che in fila scorrono dentro una fossa
la bocca socchiusa ancora rimastica
a piccoli morsi come un elastico
è il ventre che scalcia e quasi si strappa
un dolore che squarcia e non si spacca
la rabbia gravida prima del parto

[...]











KOSTAS REÚSIS [10.755]

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Kostas Réusis
La fotografía de Reúsis es de Ártemis Kúnduru (en el Café Καλά Καθούμενα, Nicosia)

Kostas Reúsis 

El poeta Kostas Reúsis, griego puro de Chipre, nació en Atenas en 1970. Estudió Derecho en la Universidad de Atenas, pero no llegó a licenciarse. En 1995 se publicó su libro de poemas Camaleón («Χαμαιλέων», edición privada no venal) y en 2008 el libro de poemas en prosa Feuille Volante de irreal insolencia («Feuille Volante Υπερπραγματικής Θρασύτητας», Ekdosis Tyflómiga). Tiene por costumbre fotocopiar sus obras y difundirlas de manera gratuita. Vive y trabaja en Nicosia, Chipre. Los poemas aquí publicados y traducidos pertenecen a su libro El cráter de mi risa («Ο κρατήρας του γελιού μου», Atenas, Ekdosis Farfulás, 2009), también de poemas en prosa. El poeta y filólogo chipriota Yorgos Kalosóis (1963) escribió el siguiente comentario, incluido en la contraportada del libro: «Es salvaje la poesía de Costas Reúsis. Aquí no hay nada que tenga que ver con el gatito del posmodernismo, que deja que lo acariciemos. Hay algo que tiene que ver con poemas-leopardo que suben con sus presas a las descomunales acacias de la sabana. Cuando la sangre del pequeño antílope aja el grueso tronco, lo más razonable es que corramos lejos para salvarnos. Que los turistas conformistas, fascinados en los jeeps en el momento de fotografiar la escena, tengan en cuenta que el monstruo se sienta y respira profundamente detrás de sus cogotes. Cómo llegó allí, por qué se quebrantó el significado de la seguridad, se explica por la milagrosa cualidad de la poesía». Traduzco también la información incluida en la nota de prensa de la editorial Farfulás: «Teniendo como entorno psico-geográfico principalmente la ciudad vieja de Nicosia, Costas Reúsis emplea de forma somática los conceptos de lo bajo y de lo alto como primeros componentes de palabras de la realidad que aquéllas impulsan, forzando un insólito aliento de escritura. El poeta Mijalis Papadópulos ha mencionado al respecto: “La brusca raedura de todos los insolentes del decoro lingüístico—la ferocidad de una nobleza que no tiene nombre o lugar en este mundo”, mientras que el filólogo Yorgos Míaris lo define como: “Inadaptable presencia en poblaciones acomodadas en el olvido”. En el libro El cráter de mi risa, gozando verdaderamente con el poema en prosa, presenta un surrealismo chipriota puro o un reusismo irreal, como repetidamente ha mostrado en directo».



Presentamos, en versión del poeta y traductor español Mario Domínguez Parra, una serie de poemas en prosa del escritor griego, radicado en Chipre, Kostas sis (Atenas, 1970). Los poemas aquí publicados y traducidos pertenecen a su libro El cráter de mi risa (2009). En 1995 se publicó su libro de poemas Camaleón y en 2008 el libro de poemas en prosa Feuille Volante de irreal insolencia. Tiene por costumbre fotocopiar sus obras y difundirlas de manera gratuita.


TRADUCCIÓN Y NOTAS
MARIO DOMÍNGUEZ PARRA

http://circulodepoesia.com/





cuatro meses

a la derecha la muñeca rusa a la izquierda el pavo el pelícano de Singapur consideró los abrecartas así como cuernos colocó algo más cerca de la nuca en el centro el occidente con el tigre de cristal como base oh qué putaísmo qué olores mira también la mariconada a horcajadas el caballo ssss que la lluvia embarre la arena el jazmín el jazmín que se encontró enmierdado de polvo en el polvo vuelo como se enamora un zángano es y no es eh y por casualidad una mujer gesta por esporas al escribano al mal poeta del sol pacificado mandato que en mis dominios tañe love will tear us apart obsequia obsequia obsequia y almas cosecha cuando la belleza besó el alba except the sight of dust la deseo otra vez otra vez la deseo su coñito moreno que con locura busqué mi lengua maga ágil para habitar un pareo con los cuatro reptiles devino cortina testarudez de la épsilon que por casualidad posee es angosta plena corta flexible qué arribó desde Hermíone de la beta que probó por vez primera la salobridad buscas el bolígrafo la esponjita de la oreja en el suelo y dentro de aquel tímpano ondea abriendo el agujero el agua pasaje para marchar nadando las vísceras las vísceras nadando y nadando otra vez de ellas tuvo cuidado y denunciaron cosías no midas lo contrario al revés lo que sea que se abra para caminar es tierra firme este calor que aguarda




τέσσερις μήνες

δεξιά η ρωσική κούκλα αριστερά το παγόνι ο πελεκάνος της Σιγκαπούρης σκέφτηκε τους χαρτοκόπτες έτσι ως κέρατα τοποθέτησε κάπου κοντά στον αυχένα στο κέντρο ο δύτης με βάση τη γυάλινη τίγρη ω τι πουτανιά τι οσμές να κι η πουστιά καβάλα τ’ άλογο σςς η βροχή την άμμο να λασπώνει το γιασεμί το γιασεμί που βρέθηκε χεσμένο με σκόνη σε σκόνη πετώ όπως κηφήνας ερωτεύεται είναι και δεν είναι ε και το γραφέα γυναίκα έτυχε να κυήσει με σπόρο κακό ποιητή ειρημένου του ήλιου προσταγή που στα μέρη μου κρούζει love will tear us apart χαρίζει χαρίζει χαρίζει και ψυχές θερίζει όταν η ομορφιά φίλησε την αυγή except the sight of dust τη θέλω ξανά ξανά τη θέλω το μελαχρινό μουνάκι της π’ έψαχνα με μανία η γλώσσα μου μάγισσα ευκίνητη να διαβαίνει το παρεό με τις τέσσερις σαύρες έγινε κουρτίνα πείσμα του έψιλον π’ έτυχε να κατέχει στενό μεστό κοντό ευλύγιστο είναι τι ήρθε από την Ερμιόνη του βήτα που δοκίμασε εκ νέου την αρμύρα το στυλό ψάχνεις το σφουγγαράκι τ’ αυτιού στο πάτωμα και μες στο τύμπανο εκείνο κυματίζει ανοίγοντας την τρύπα το νερό δίοδο να ελαύνει κολυμπώντας τα σπλάχνα τα σπλάχνα κολυμπώντας και ξανά κολυμπώντας τα πρόσεχε και μήνυσαν ράψε τ’ αντίθετα αντίθετα μην μετράς ό,τι ανοίγει να περπατάς ήπειρος είναι αυτή ή ζέστη που προσμένει







el ejército de Arquíloco[1]

ante el olor de la bilis me arrodillé todo lo humano que regresa palabra fluida paso de lo oscuro o luz del mundo la de allá ajustándose el terror atardece el horror solanero sucios pasos erotismo ilegal figuras desbocadas de la habitación de al lado con regaderas mortuorias saciando la sed anárquicamente el brote salvaje jardineros hermafroditas con la responsabilidad de una semilla de atrincherado persiguiendo la fe con un lápiz cargado conjeturando continúan hacia invisibles trincheras de almas violadas así los subversivos gestos en las mazmorras de sus antepasados hacen añicos su ineludible pérdida la degradación que pedís quema al hombre en la soledad un sinuoso plano acecha la locura por conocimiento con frecuencia regreso ceñudo o afectado llevo muecas puestas y jamás me escondí de nadie en vuestro teatro de timadores me opongo profiriendo sandeces



η στρατιά του Αρχιλόχου

στη μυρωδιά της χολής γονάτισα ό,τι ανθρώπινο επιστρέφει ρευστός λόγος πέρασμα του σκοτεινού ή φως του κόσμου τ’ απ’ εκεί ταιριάζοντας ο τρόμος ξημερώνει ηλιόλουστη τη φρίκη βρόμικα περάσματα παράνομα ερωτικά αφηνιασμένα φιγούρες του δίπλα δωματίου με ποτιστήρια νεκρικά ξεδιψώντας άναρχα την άγρια βλάστηση ερμαφρόδιτοι κηπουροί με την ευθύνη ενός καρπού χαρακωμένου πίστη κυνηγώντας μ’ οπλισμένο μολύβι εικάζοντας προχωρούν σ’ αθέατα χαρακώματα βιασμένων ψυχών έτσι οι ανατρεπτικές χειρονομίες στα μπουντρούμια των προγόνων τους τσακίζουν τον αναπόφευκτο χαμό τους η αποκτήνωση που ζητάτε καίει τον άνθρωπο στη μοναξιά ένα τεθλασμένο επίπεδο καιροφυλακτεί την από γνώση τρέλα συνήθως επιστρέφω αγέλαστος ή προσποιούμενος φοράω γκριμάτσες δεν κρύφτηκα ποτέ κι από κανέναν στο ληστρικό σας θέατρο αντιστέκομαι ξεστομίζοντας αρλούμπες







sucursal

paroxismos desembridados de palabra violada se disparan en innumerables cuadernos de certitudes de registro civil como ocurre en estas ocasiones en el cortinaje lateral de la elección de especies de batracios de marionetas desde que tienen una anarca irrealidad de sexo viril ingresa en el proceso de la ascesis o de la imposición de la sodomía el ángel hermafrodita muestra en la picadora la moltura de una ciudad mino-taurina muchacha macilenta en vela siempre virgen con una corona de luz encara a los artesanos en la fábrica de producción de consciencias despiezadas el movimiento de la correa empaqueta el olor a cuerpo quemado exportación de auténtico producto local con voladura programada


παράρτημα

αχαλίνωτοι παροξυσμοί βιασμένου λόγου εκτοξεύονται σε απειράριθμα κιτάπια ληξιαρχικών βεβαιοτήτων όπως συμβαίνει μ’ αυτές τις περιπτώσεις στην κουΐντα της εκλογής βατραχοειδών ανδρείκελων από χουν μία άναρχη υπερπραγματικότητα άρρενος φύλου εισέρχεται στη διαδικασία άσκησης ή επιβολής του σοδομισμού ο ερμαφρόδιτος άγγελος δείχνει στη μηχανή του κιμά το άλεσμα μιας μινωταυρικής πόλης χλωμή άυπνη αειπάρθενος κόρη φωτοστεφανικά αντικρίζει βιοτεχνικούς εργάτες στη φάμπρικα παραγωγής τεμαχισμένων συνειδήσεων η κίνηση του ιμάντα συσκευάζει τη μυρωδιά καμένου σώματος εξαγωγή γνήσιου τοπικού προϊόντος με προγραμματισμένη ανατίναξη






el enigma del anatema

en la espuma de la necesidad del declive cervecero admiro el galope del murciélago anunciando fanfarronamente la primavera de la noche que abofetea camino rasgando como taquicardia verborreas de realistas y de otros sacrílegos arribistas que no opinan que la bandada de pájaros encare vaginas gorjeando la muerte de un día literalmente coqueteo con el comportamiento de Karaguiosis[2] de forma irrealista bañando amados participios en las selecciones musicales de pintores de dibujantes en la red de apellidos de polizones de plástico todo lo que colisiona en un secreto no-transmisor descifra la inspirada navegación de murmullos extrasensoriales puesto que el significado de un silbido presupone la duración y no la apresurada migración o el regreso turístico




το αίνιγμα του αναθέματος

στον αφρό της ζυθοφθόρας ανάγκης θαυμάζω τον καλπασμό της νυχτερίδας φανφαρονικά αγγέλλοντας την άνοιξη της καρπάζουσας νύχτας περπατώ ταχυπαλμικά τσακίζοντας λαφαζανιές ρεαλιστών κι άλλων τυχάρπαστων μιαρών που δεν φρονούν πτηνών το σμήνος ν’ αντικρίζει αιδοία άδοντας τον θάνατο μίας ημέρας κυριολεκτικά φλερτάρω τη συμπεριφορά του Καραγκιόζη υπερπραγματικά λυτρώνοντας αγαπημένες μετοχές στις μουσικές επιλογές ζωγράφων διαδικτυακών σχεδιαστών επωνύμων λαθρεπιβατών εικαστικών ό,τι συγκρούεται σ’ ένα αμετάδοτο μυστικό αποκρυπτογραφεί την εμπνευσμένη ναυσιπλοΐα αλαφροΐσκιωτων ψιθύρων καθώς το νόημα ενός σφυρίγματος προϋποθέτει τη διάρκεια κι όχι την αρπαχτή αποδήμηση ή τουριστική επιστροφή






la irrealidad submarina

la escafandra ruega invocando nautas pasajeros tripulaciones hechizadas la desesperación del levantamiento la dislexia penetra muda incluso autistamente corroyendo la memoria de llantos reclusos en ejes que innovan como desde siempre el ojo de buey se ocupó de enviar códigos de incendio bajo el mar




η υποβρύχια υπερπραγματικότητα

το σκάφανδρο προσεύχεται επικαλώντας αύτανδρα πληρώματα στοιχειωμένα την απελπισία της εξέγερσης βωβά έως αυτιστικά η δυσλεξία εισχωρεί διαβρώνοντας τη μνήμη εγκλείστων κλασμάτων σε άξονες που τέμνονται όπως ανέκαθεν το φινιστρίνι φρόντιζε να στέλνει κώδικα φλόγας υποθαλάσσια





escritura ebria

en los peores instantes bajando la cabeza deposito la mirada bárbara rastreando lo desalmado de la existencia centrando el encerrado ídolo de una mudable alcahuetería aclaro lo indecible que tropezó para que no te maravillaras por las visiones para ofrendar dentro del poema yendo a encontrarte con la muerte con el sueño con versos húmedos recientemente cortados del jardín que abriste y que te pertenece de manera no ortográfica miro el mundo me mantengo alejado de los cielos tan cerca de los comportamientos de personas a las que amo con locura rasguñando letras mano endemoniada dirige hecha añicos las palabras




μεθυσμένη γραφή

στις χειρότερες ώρες σκύβοντας εναποθέτω στο βάρβαρο βλέμμα ανιχνεύοντας τ’ άψυχο της ύπαρξης κεντράροντας στο κλειδωμένο είδωλο μιας αλλοπρόσαλλης μαστροπείας εξιχνιάζω τ’ άρρητο που ’λαχε να μην ξαφνιάζεσαι από τις οπτασίες να προσφέρεις μέσα στο ποίημα πηγαίνοντας να συναντήσεις θάνατο στον ύπνο στίχους υγρούς κομμένους πρόσφατα από τον κήπο π’ άνοιξες και σου ανήκει ανορθόγραφα κοιτώ τον κόσμο απέχω απ’ τα ουράνια τόσο κοντά στις συμπεριφορές ανθρώπων π’ αγαπώ με πάθος γρατζουνώντας γράμματα αφιονισμένο χέρι οδηγεί τσακισμένο στις λέξεις





[1] Arquíloco de Paros, poeta griego. A continuación traduzco un resumen biográfico de H.D. Rankin: «Era el hijo de Telesicles, que fundó una colonia en Paros, y su madre era una esclava. Quedó decepcionado por la posibilidad de casarse con Neobule, la hija de Lycambes. Posiblemente propició que algunos miembros de su familia se suicidasen a causa de sus sátiras. Se involucró en política y en la guerra. Murió en el campo de batalla. Dijo mucho de sí mismo y de su propia vida en su poesía. Llevó una vida errante. En ocasiones ejerció de soldado mercenario. Vivió durante el siglo VII a.C.» (vid. H.D. Rankin, Archilochus of Paros, New Jersey, Noyes Press, 1977, p. 10). Según Rankin, su fragmentaria obra «es suficiente para asegurar la alta reputación de su genio en la antigüedad» (op. cit., p. 85).

[2] Personaje principal del teatro de sombras griego. También significa, metafóricamente, «payaso» o «hazmerreír».







MARCOS RIVADENEIRA SILVA [10.756]

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Marcis Rivadeneira

Marcos Rivadeneira Silva 

Poeta y pintor quiteño (Ecuador), con una amplia trayectoria. Su obra tiene un estilo neo figurativo y ha sido expuesta en diferentes salas de arte del Ecuador, Brasil, Italia y España. Se ha hecho merecedor de varios premios, por dos años consecutivos obtuvo el Primer Premio Salón Universitario de la Universidad Tecnológica Equinoccial.
Recientemente publicó, bajo el sello del El Ángel Editor, dirigido por Xavier Oquendo, el poemario Hermano sol, hermana muerte.

Estudios:                          

Universidad Central del Ecuador. Escuela de Artes. Itinerante
Universidad Tecnológica Equinoccial. Escuela de Restauración y Museología
MAM (Museo de Arte Moderno) Sao Paulo Brasil.
Curso de pintura Atelier Lourdes Cedrán. Sao Paulo Brasil. Curso de Fabricación de papel artesanal.
Curso para la Conservación del Patrimonio arquitectónico. Venecia Italia.
Curso de Conservación de documentos y papel para archivos. Santiago Chile
Fifth international Japanese paper conservation Course. Tokio – Kioto Japón.
Curso para conservación de documentos y papel. Archivo histórico de Alcalá de Henares España.

Exposiciones:

1989 - Salón de obra sobre papel Museo Banco Central del Ecuador
1989 - Museo Casa de Sucre. Ecuador
1990 – Museo de Arte Brasilero. Sao Paulo Brasil
1990 – Centro Cultural da UFMG Bello Horizonte Brasil.
1990 - Galería Volpi San José dos Campos Brasil
1992 - Mural Escuela de San Servolo Venecia - Italia
1992 - Instituto Nacional de Patrimonio Cultural del Ecuador
1994 – Centro Cultural Metropolitano Salón Mariano Aguilera Quito
1994 - Alianza Francesa Quito
1995 – El Solar Quito – Ecuador
1996 - Salón Universitario Universidad Tecnológica Equinoccial.
1997 - Salón Universitario Universidad Tecnológica Equinoccial.
1998 - Centro Cultural de la Universidad Tecnológica Equinoccial.
2008 - Salón Internacional de pintura figurativa Fundación de las Artes y los Artistas. Madrid  - Barcelona España
2008 - Ileana Viteri Galería de Arte - Quito
2008 - Galería Casa San Lucas Quito - Ecuador

Premios:                 

Segundo Premio
1989 - Salón de obra sobre papel Museo Banco Central del Ecuador
1990 - Medalla de Oro al mejor egresado de la Facultad de Artes de la Universidad Tecnológica Equinoccial.
Diploma de Honor del Instituto Nacional de Patrimonio Cultural, por promoción y divulgación Cultural
Primer Premio 
1996 - Salón Universitario Universidad Tecnológica Equinoccial.
Primer Premio
1997 - Salón Universitario Universidad Tecnológica Equinoccial.


Marcos Rivadeneira

  

1

Balancín

A Matilde


Del árbol nace la rama
De la rama nace la flor
¿Sabes tú amigo mío, de dónde nace el amor?

          ¿Cómo Ana atravesó el espejo cepillando la pubertad? Todo ese tiempo guardando su cuerpo, giros, reojos y pretensiones para sí misma. El rubor, los secretos y pequeñísimos brotes erectos sobre la blusa.

         Las tardes alargan el mar, la playa dejó castillitos desmoronados, la briza de otros mundos con el viento pegaba de frente en la cara. Había gente, siempre grande ademanes y consejos.

         Polichinela en un balancín torpe intentando su galope. Del árbol nace la rama, la que aturde, la que tienta.


Marcos Rivadeneira




2

         Ahora tengo una nueva compañera de celda. Modela en mazapán figuritas de nacimientos mientras canta nanas con dulce lamento. Me gusta su voz y su canto. Me reconforta; cuando ha cantado varias horas, parece que los sonidos se funden con las paredes. Cuando calla, el silencio es tan hondo que temo absorba las celdas como un agujero negro. A lo lejos, entonces, reconozco los gemidos de otras mujeres que lloran sus desconsuelos. Llantos de madres, hijas, esposas y amantes abandonadas en otras celdas.




3

Cuando no puedo dormir, me miro desde el exterior para saciarme de mis formas que son solo cuerpo. El placer es pasajero como lágrimas que se secan después del esfuerzo. Luego puedo viajar al interior en busca de astillas incrustadas como lanzas de verdugos liliputienses.

         Cuando no puedo dormir, quisiera saltar del vagón abandonado y volar en bandada de luciérnagas con la frente expuesta al golpe de tu mirada proscrita y llorarte con el latido de corazón de cartón corrugado.

         Cuando no puedo dormir, no puedo cambiar de tren en movimiento y te abandono como bolso en poste para sujetar correspondencia que se devana en cada estación. Me miro desde el exterior y dejo de ser, para jugar nuevamente con las lanzas de verdugos que me han sujetado como alfiler en alguna solapa de paso.






4

         Cuando narré naturaleza, mariposas con sus ojos absortos y ciegos, pájaras que llevan gusanos en sus picos, esos atrevidos pichones que se avientan al vacío sin más aliento que el medio día…; no trataba vuelos de pájaros, ni de hojas que se devuelven en un vaivén sostenidas por el viento; no, estaba hablando del alma.

         Cuando hablé de los barcos y las tormentas debajo de océanos de inquietudes y náufragos de desamor… No estaba hablando de olvido, de malquerencia…; no curaba el dolor que produce la lejanía, de frustraciones, de deseos afectados. Hablaba, está claro, del alma.

         Canté examinando la entraña, navegué por hojas de hierba, recorrí historias contadas por otros y nunca encontré más que relaciones lejanas a las mismas flores, campos, de la humedad;  mariposas, aves; vuelos, barcos, tormentas y naufragios.




ARITZ GORROTXATEGI [10.757]

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Aritz Gorrotxategui

Aritz Gorrotxategi 

(Donostia, Gipúzcoa, 31 marzo 1975). Licenciado en Derecho, ha colaborado en  multitud de medios, tanto escritos como digitales y ha trabajado como guionista en series de la televisión. Su actividad ha estado ligada, principalmente, a la literatura, al cine y a la docencia. En el 2000 ganó el premio Ciudad de Irun en la modalidad de novela gracias a Kafkaren labankada (La cuchillada de Kafka). En el 2001, obtuvo la beca de creación literaria promovida por la Diputación Foral de Gipuzkoa. Tres años más tarde, se hizo con la beca Koldo Mitxelena, promovida por la misma institución. Ha cultivado diversos géneros literarios. Entre sus obras destacan los poemarios Zaldi hustuak (Caballos vaciados) del 2007 y Hariaz beste (Más allá del hilo), por el que recibió el Premio de la Crítica en 2012; el libro de relatos Egurra Pinotxori (Leña a Pinocho) del 2002 y las novelas Kearen truke (A cambio de humo) de 2005 y Axola ez duenean (Cuando no importa) de 2009. Es miembro del grupo organizador de las jornadas de “Poesía y pensamiento” que se llevan a cabo en Durango y en San Sebastián. Así mismo, ha traducido al euskara Pura coincidencia. Kointzidentzia hutsa de Itziar Mínguez y el ensayo Zer da artea? (¿Qué es el arte?) de Tolstoi.


OBRA:

Narración

Egurra Pinotxori (2002, Alberdania)

Novela

Kafkaren labankada] (2001, Kutxa)
Kearen truke (2005, Alberdania)
Axola ez duenean] (2009, Alberdania)

Poesía

Taxi bat Hamlet-entzat] (2002, Hiria)
Zaldi hustuak] (2007, Erein)
Hariaz beste] (2011, Erein)

Crónica

Galtzontziloak autobusean zintzilik] (2002, Erein)





Dossier “Euskal poetak: poetas jóvenes del País Vasco” preparado por los poetas Hasier Larretxea e Izaskun Gracia Quintana. 
Círculo de Poesía
http://circulodepoesia.com/




1. EL HILO DE MAÑANA

Conjurando sonidos ocultos en un  violín
transforma en catedral la pequeña plaza
antes de que parta el autobús de las ocho
enmudeciendo a los oyentes.

Aguarda con el sombrero boca arriba
en el suelo, confiando en que merezca la pausa
antes de proseguir viaje, anhelando
corporeizar Ariadnas entre los congregados,
atrapando entre las cuerdas musicales
heridas de ida y vuelta.

Sin embargo, hoy, precisamente hoy,
sabe que ella se encuentra entre los otros,
precisamente hoy
es los otros,
un día como ayer,
donde resulta suficiente agarrarse a un hilo
para fijar la patria en la mirada,
para asegurarnos que al otro lado está ella,
Ariadna.

La mujer ama también a Teseo,
pero ninguno de los dos acierta a decir
de qué manera harán frente al Minotauro,
enlazando sus pronombres o separándolos
cuando regresen a su hogar
cada uno en su autobús
a deshacerse en la particularidad,
creyendo aún poder armar un hilo
con los fragmentos hoy perdidos.

Siguen amándose a distancia,
sin necesidad de preguntas,
cómo acoge el laberinto al caminante,
sin respuestas.





1. BIHARKO HARIA

Biolinaren baitako hotsak esnaraziz,
plaza txikia katedral bihurtzen du zazpietan,
zortzietako autobusak ihes egin baino lehen,
entzuleen hotsak isilaraziz.

Hor ikusiko duzu kapela nola bete,
geldialdiak merezi duela aurrera baino lehen,
biribilduen artean Ariadna zilegiak
dituela gogo, musika harien artean itxiz
joan-etorriko zauriak.

Baina bereziki gaur
badaki hura dagoela besteen artean,
bereziki gaur
atzo bezalako egun bat da,
non nahikoa den hari bati heltzea
sorterria begirada batean zehazteko,
non nahikoa den hari bati heltzea
beste aldean Ariadna dagoela ziurtatzeko.

Emakumeak ere maite du Teseo,
baina bietako inork ez daki esaten
nola egingo dioten ihes Minotauroari,
biak bat direnean ala banaka
etxera doazenean
bakoitza bere autobusean
banakotasunean desegitera,
puskekin biharko haria
birsor daitekeela sinistera.

Urrutitik maite dute elkar,
galderarik egin gabe,
labirintuak ibiltaria maite duen moduan.







2. LA LUZ AL CAMINO

La luz sale al camino, con corona de savia
En los jardines se extienden bosques, de norte a sur
El fuego blanco se ha adueñado del vaho de los pasos
Mientras vivimos somos inmortales, como salientes
de arena

Trenzar los días es un ejercicio lento, sustancia
que se expande
Iguales todos al fin y al cabo, ubicados en distintos espacios
Cuando la lluvia humedece la carne, el prado carece de límites
en los temblorosos labios
La mano en el surco de la palabra, mirando septiembre
la uva ya madura en la vid





2. ARGIA BIDERA

Argia ateratzen da bidera, izerdi koroaz
Lorategietan basoak hazi dira, ipar eta hego
Su zuriak bere egin ditu bideko urrats-lurrunak
Bizi garen artean hilezkorrak gara, areazko ertzak
bezala
Egunak adastea ariketa luzea da, soin noranahikoa
Berdinak gu, azken batean, leku ezberdinetan jarriak
Euriak haragia bustitzen duenean, soroak mugarik ez
ezpain dardaratietan
Eskua hitzaren ildaxkan, irailari begira, mahatsa
mahatsondoan larri






3. SI EL HILO SE AGOTA EN LA MANO

Un instante en la corteza espacio-temporal, dos pasos de una habitación a otra, un abrazo a ti, a los niños… Un paréntesis oscilando entre el verano y el invierno, sin tiempo para decir adiós. La vida se escurre pensando en lo que somos, y la muerte es una larga línea sin ti, demasiado larga para distinguir el comienzo del fin.

Eso es lo que me sobrecoge, no lo otro. La noche es oscura, ya lo sé; la oscuridad no es abrumadora por ser oscura. Tú eres el otro extremo, el hilo, y si no hay en esas negras orillas un hilo hacia ti, un camino, si no lo hay y todo ha acabado, yo, tú, el mundo… Me habré extinguido no por haber muerto, si no porque tú has muerto para mí, nada más empezar…

Un instante en la corteza espacio-temporal, y la muerte es lo de menos si se agota el hilo en la mano.




3. ESKUAN HARIRIK GERATZEN EZ BADA

Denbora-espazioaren azalean une bat, gelatik gelara bi pauso, besarkada bat zuri, umeei… Udaratik negura eten bat, denborarik ez adio esateko. Garenaz pentsatzen badoa bizitza, eta heriotza zu gabeko marra luzea da, luzeegia hasiera eta bukaera bereizteko.

Horrek ematen dit ikara, ez besteak. Gaua iluna da, badakit; iluna ez da pisua ilun izateagatik. Zu zara beste aldea, haria, eta ez badago ertz beltz horietan zuganako haririk, zuganako biderik, ez badago eta dena bukatu bada, neu, zu, mundua… Bukatua naiz ez hil naizelako zu niretzat hil zarelako baizik, hasi baino ez ginenean…

Denbora-espazioaren azalean une bat, eta heriotza gutxienekoa da eskuan haririk geratzen ez bada.






4. NO IMPORTA EL LUGAR

El lugar carece de importancia cuando regresas, la comida permanece en la mesa, igual que ayer, peces desgastados y mijo, vasijas de barro. Sobre los recipientes, el cálido vapor de la sopa. Que no te engañen los sonidos cotidianos, los rostros penden de los rostros, unos de otros.  Los sirvientes han olvidado tus facciones, el viento ignora los itinerarios, no ejerce poder sobre el norte, Retroceden los pasos hasta la superficie del viajante, donde tomarán tierra los pies cansados y heridos  tras largos años de peregrinaje.

Has retornado por tierras ahora extrañas. Aunque se abran las puertas, no siempre es para entrar.  Tu morada es un lugar inhóspito, frío y agrietado  pregunta sino al trigo, a la uva, a los cuervos…  El tiempo ha hecho surcos sobre el tejado,  la luna ha labrado los lacerantes nudos del fogón. No vienes cargado de frutas ni de buenas nuevas Ya nadie te espera, nadie observa tras la ventana,  enmudecieron las infantes en los rincones lluviosos,  si dices lo que quieres, no oirás lo que esperas

A pesar de ello, atarás tu caballo en el establo, en silencio, tomarás tu sitio entre los demás, no en la silla de siempre. No corren buenos tiempos, lo sabes, muchos partieron antes que tú, lo ves en las miradas cenagosas, en la higuera ausente del umbral, en los bosques talados, en los campos incinerados. Por eso has vuelto, la llamada del retorno era irrevocable.  No es tiempo de cosecha, sino de llanto, caen las hojas  de los cuerpos abatidos, de las palabras impronunciables surge el río, enroscado en su propia sal, huérfano de mar.

No has venido a depositar palabras en el vientre de nadie, sino a unirte en la espera con los demás, mano sobre mano, más allá del dolor, demorando preguntas y respuestas, pacientemente, callas también el aroma de tierra extrañas. La vida es esfuerzo por comprender, tiempo de escucha. Es verdad, llevas contigo aullidos y concavidades, carros de guerra y anchos campos empapados de sangre, los rostros está arrugados, enfangados, palpitan entre branquias,  pero no te pertenecen sólo a ti, no, no te pertenecen…

Por la ventana entreabierta llega olor a tierra quemada, mezclada con frío negro, los días de lluvia tornarán en breve, envueltos en vid, las herramientas regresarán a las manos, el sudor a las frentes, haciendo temblar los inquietos brazos, cosiendo el aliento a la hierba. Tu mano es una semilla, y la tierra carece de límites. Debéis llamar de nuevo a la cosecha, lentamente, para que serpentee entre las cenizas y el germen se haga canto en los labios de la sequía. Por eso has vuelto, las semillas tienen su tiempo, al igual que los regresos.




4. LEKUAK EZ DU GARRANTZIRIK

Lekuak ez du garrantzirik itzultzen zarenean; mahaian janaria dago oraindik, atzo bezala, arrain meheak eta artatxikiak, buztinezko ontziak. Zopari lurruna dario edalontzien gainetik. Zaratak eta hots beti berek ez zaitzatela engaina, aurpegiak zintzilik daude aurpegietatik; zerbitzariek ahaztu dituzte zure hazpegiak; haizeak ez daki norabideez, ez da iparraren jabe, pausoak atzera etortzen dira bidaiariaren zoletaraino, non lurreratuko diren oin zauritu eta nekatuak urte luzeen ondotik.

Itzuli zara jada ezezagun zaizkizun lurretatik. Ateak zabaltzen badira ere, ez da beti sartzeko. Leku ospela da orain zure lurra, hotza eta zartatua, galdetu bestela gariari, galdetu mahatsari, beleei… Ildaskak egin ditu denborak teilatu gainean, ilargiak goldatu ditu sutondoko min korapiloak. Ez zatoz fruituz eta albiste onez beteak eskuak, dagoeneko ez dituzu zain, ez daude leihotik begira, mututu dira ume-jolasak euri zokondoetan. Nahi duzuna esanez ez duzu entzungo nahi duzuna.

Halere, zaldia lotuko duzu ukuiluan, ezer esan gabe, zure lekua hartuko duzu besteen artean, ez betiko aulkian. Ez dira garai onak, badakizu, asko joan ziren zure aurretik, begi hauskaretan ikusten duzu hori, ataritik falta den pikondoan, moztu diren inguruko baso eta soro erraustuetan, horregatik itzuli zara, itzulerako deia atzeraezina zelako. Ez da uzta garaia, negar garaia baizik, hostoak erortzen dira gorputz unatuetatik, esan ezin diren hitzetatik sortzen da ibaia, bere baitan gazituz, itsaso zurtz.

Zu ez zara hitzak jartzera etorri inoren sabelean, itxaronaldian bat egitera baizik, denekin, eskua eskuaren gainean, minaz haratago, galderak eta erantzunak alboratuz, presarik gabe, lur arrotzeko lurrinak bezalatsu. Bizitza ulertzeko ahalegina da, entzuteko denbora. Egia da, zurekin daramatzazu oihuak eta konkadurak, guda-gurdiak eta odolez blaituriko zelai luze-zabalak, zimurrak daude aurpegiak, lohiez, zakatz-arnasketa artean, baina ez dira zureak bakarrik, ez, ez dira…

Leiho irekitik lur erre usaina dator, hotz beltzez nahasia, euri egunak laster itzuliko dira mahatsez blaituta. Erremintak eskura nola, izerdia kopetetara abailduko da beso urdurietan dardara jarriz, hatsa belarrera lotuz. Zure eskua hazi bat da, eta lurrak ez du mugarik. Dei egin behar zaio berriro uztari, pixkana, errautsen artean suge eginez, hozia kantu egin dadin lehortearen ezpainetan. Horregatik etorri zara, haziek bere denbora baitute, itzulerek bezala.







http://www.elcoloquiodelosperros.net/
Traducción: Aritz Gorrotxategi



Benetako misterioa

Poema ez da buruketa bat,
ez eta ebatzi beharreko
ekuazio bat. Ez saia bilatzen
esanahi ezkuturik, ez sasi
misteriorik. Utzi poemari
musika bezala irristatzen,
utzi hitzen korapiloari 
guregan oihartzuna bilatzen,
radar baten antzera, arrainak
olatu-irristan bezain aske, 
Erantzi hitzei gerrikoa,
jolas dezatela, orain lizun
orain ikarati, orain baso,
orain ama, udara hurrena,
kea, erlojua, marinela...  
Alfabeto bat araurik gabea,
re handian edo do txikian,
su handian edo su txikian...

Datozen bezala hartu hitzak,
ezer eskatu gabe trukean
Misterio bila ari bazara,
alferrik ari zara, poemak
zure baitako kutxa beltzeko
ateak baino ezin ditu urratu. 
Benetako misterioa da
zergatik garen pertsonak ez gai  
elkarrekin bakean bizitzeko,
eta zergatik egiten duen 
diruak ihes lehendik ere
nahikoa diru zutenengana.  





El verdadero misterio

El poema no es un problema, 
ni una ecuación a resolver.
No rastrees sentidos ocultos
ni pseudo misterios. 
Deja que el poema 
se deslice como música, 
que el nudo de las palabras busque
en nosotros su eco, al igual
que un radar, libre como los peces
patinando sobre las olas.
Quítales el cinturón a las palabras,
que jueguen, ahora deshonestas,
ahora temerosas, ahora bosque,
ahora madre, primavera después,
humo, reloj, marinero… 
Un alfabeto sin reglas,
en re mayor o en do menor,
en fogata grande o pequeña…

Acoge a las palabras como vengan
sin pedirles nada a cambio.
Si buscas misterios,
te esfuerzas en vano,
el poema solo puede rozar
las puertas de tu caja negra.
El verdadero misterio es
porque somos las personas
incapaces de vivir en paz,
y porque se esfuma el dinero
a los bolsillos de los que ya antes
tenían demasiado.



ANA VELARDE [10.758]

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Ana Velarde  

(Distrito Federal, MÉXICO, 1991)

Poeta mexicana nacida en octubre de 1991. Ferviente admiradora de Octavio Paz y San Juan de la Cruz. Participó en el taller de poesía impartido por Javier Sicilia en el Centro Morelense de las Artes y actualmente estudia la licenciatura en Letras Hispánicas en la Universidad Autónoma del Estado de Morelos. Algunos de sus poemas aparecen en la antología Breve memoria de un instante publicada por Moria y Ediciones Simiente. 
En 2013 fue elegida para participar en el Curso de Creación Literaria para Jóvenes en la ciudad de Xalapa, organizado por la Fundación para las Letras Mexicanas y la Universidad Veracruzana. Ha publicado el libro La luz cuando amanece (Ediciones Simiente, 2012).






De "La luz cuando amanece"




Lluviosa omnipotencia,
deshójate en mi vientre
porque habrá de albergar,
el día de la gloria,
su ardorosa semilla,
porque habré de ser nido,
jacaranda,          
deshójate en mi pubis,
porque habré de ser suya hasta el fin de los tiempos.







Que se abran todos los frutos de la tierra
ante tu desnudez
y derramen su pulpa y su semilla.

Que se quiebre la noche con tu grito.

Que florezcas en mí —violeta incandescente—  todas las primaveras.

Que sangren las heridas,
que duelan para sabernos imperfectos.

Que vuelvas —que siempre vuelvas--

que no termines nunca de incendiarme.







           Tengo que desnudarme porque tú resplandeces
               Tomás Segovia

                                                                                 
Tengo que desprenderme de mi nombre
y ofrendarte el ardor que anega mi alma
porque tú eres el pan,
la miel,
la salvación del mundo,
y a tu paso la tierra se hace fértil;
tengo que abrirme
para incendiar la noche de victorias,
tengo que descender a mis orígenes
—a los primeros días del mundo--
para saciar tu resplandor,
porque tienes costumbre de milagro
y solamente soy
porque tú me has nombrado.

http://enemorelos.weebly.com/ana-velarde.html








Bajo esta jacaranda y para siempre
he de llamarte mío,
he de saberte eterno,
cavidad subterránea,
nido donde mi amor vibra como las aves.
Inminencia de luz,
bajo esta jacaranda
pronunciaré tu nombre
y será su sonido
el que hable de nosotros.







Tú, que cobijas mi deseo y lo apaciguas,
permíteme habitar en tu follaje
como habitan los pájaros
y ser siempre violeta
debajo de tu sombra.







Si yo no fuera carne
—si hubiera sido un árbol—
te besaría los ojos con mi florecimiento
y en tus pestañas infinitas
encontraría el consuelo
de no poder moverme
—de habitar el abismo
entre el suelo y la luz—.
Pero no soy un árbol
y tú no eres consuelo
—consuelo son la lluvia y la nostalgia
y no las necesito—,
eres causa,
semilla,
nacimiento.
Qué triste ser consuelo, dolería:
yo soy carne,
y tus pestañas la certeza
de que existe la luz.








Esta vez,
el 21 de marzo,
será la primavera un nuevo nacimiento
que llegue con tus ojos —florecidos de augurios—
y nazca por tu cuerpo;
esta vez en la tierra
quedarán los vestigios de los frutos
que cosecho en tu blanca desnudez
—bajo las jacarandas erguidas de deseo—
todos los días,
cada vez que me llamas por mi nombre.








Mis senos,
desnudas caracolas
donde tu boca sacia su deseo,
surgieron de la tierra
que algún día fecundaste
al ritmo de un poema.









Siempre te desvaneces
—albo amor— de mis ojos después de poseerme
siempre te haces etéreo
al borde de mis labios
siempre te vuelves sombra
siempre —amor milagroso— te diluyes
en el húmedo aroma de mi sexo
y me quedo de sola como ausencia
porque siempre —amor mío—
siempre te desvaneces.

 http://circulodepoesia.com/





AGUSTÍN GUAMBO [10.759]

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Agustín Guambo 

(Quito,ECUADOR   1985). Es Psicólogo Clínico por la Universidad Central del Ecuador. Maestrante y becario de Antropología por FLACSO. Director de la Editorial Murcielagario Kartonera. Ha publicado los poemarios Yellow dog blues (Argentina-2011) y POPEYE’s Sea (Lima-2012). Participó en Letrarte (Argentina-2010) y en el Festival de poesía de Perú (Lima-2012).




AUTO AHORKAMIENTO

a mi padre…


Miro el kadáver,
con todos sus pliegues
(hueko silencioso)
Lo veo estremecerse
con cada lágrima
de óxido de calcio
que escapa de sus huesos.
La mirada en guiñapos
me dice que tenía
familia, trabajo, tedio.
Sus manos,
son pruebas de una humanidad fidedigna.

¡CRASH!

                               ¡CRASH!!

                                                               ¡CRASH!!! 

Lo pateo por kobarde,
por ser piel y nervio

Lo pateo   ¡CRASH!

                                                               ¡CRASH!

Por ser un corazón sigiloso
Miro el cer0 que es su cuerpo.
Lo injerto en mi nuka.
Lo cargo;
sus ganglios tiritan.
Sus venas verdes,
naufragio de vida,
amenazan mis ojoskuervos.

Se abre el nicho.
Ingresa el kadáver,
rueda cuesta abajo.
El olvido le penetra por las uñas

                               ¡Llora!
Mientras arrojo agua sobre sus pies de enredadera

Mañana será, polvo
Pasado, reloj de arena
Luego, solo luego, será mi letra…







XI

Arena,
                quedará de ella y de mi
                después del amor
Arena,
                en la que otros cuerpos
                                                hundirán sus huellas…







No me gusta marzo me recuerda que no soy una ballena, me recuerda que no vivo en el mar que vivo en medio del smog de la gente; no me gusta marzo, en ese mes recuerdo que no soy ballena y te extraño…





III

el cielo se inundó de venas digitales no éramos felices no éramos felices corríamos esperando ancianas estrellas –corríamos- eso era la hermosura ver tu cabello perderse esconderse de mis manos no éramos felices pero nos queríamos Bajo del cielo de Lima un perro nos indicaba el fin de la noche y aun mirábamos nuestras pieles como queriendo mutar el abandono mirábamos nuestras pieles de tierra que poco a poco se erosionaban era el olvido [Comenzamos a caminar] Lima refulgía descuartizada y hermosa seguíamos buscándonos nadie nos dijo cómo olvidarnos nadie nos dijo cómo amarnos nunca más estaremos solos La noche es un bisturí para nuestros cuerpos Que triste es Lima después de amar Que triste es Lima después de Lima algún día seremos eternos pero esta noche nos es permitido ser mortales Fuimos parte el uno del otro si alguien me preguntara dónde está ella donde habitan sus heridas diré huele mi aliento Un día volverás absoluta, entrarás por esa puerta que tantas veces te despidió y un ruido blanco te dirá ha muerto es ahora -por fin- su propia identidad Si te preguntarán por mi muéstrales las uñas quemadas Leo que moriré en octubre y eso me llena de satisfacción La otra noche conocí a una chica eras tú o quizás solo un ave con una revelación en el plumaje Moriré en octubre como un perro asmático leo Una oración palpita en el centro de las estrellas ayer conocí a una chica que me dijo no me conoces y ya me has matado, una oración palpita en el centro del viento, aún no me conoces y no quieres olvidarme Largas horas [veo moscas en una fruta que se aman] bajo la luna acariciando la piel de las rocas porque nos dijeron que eso -también- era la felicidad Gaviotas quemadas eran los cromosomas de  un árbol que usamos para impregnar nuestra derrota éramos pequeños éramos tristes éramos nada así conocí la locura de las hormigas la necesidad de las babosas una hoguera incendiaba mi infancia mientras Lima refulgía descuartizada y hermosa eso fue nuestro cariño…





III

LA DISTANCIA

esperábamos la espuma del sol sobre nuestros kráneos, cada uno de nosotros enfermos niños frente a un mar encrespado: búho mitógrafo del viento; en tanto que un Lóbrego funámbulo de aire se prendé en mi piel: la nostalgia No temas del aliento mecánico que hueles ni del llanto que derramo Te imagino ahí en el mismo lugar -numerosos muertos transitan sus pasos cantan agobiados por la sal del desvelo-  de pie, tarde a tarde mirando el plumón del mar; me golpea la espalda el día remoto; busco tu sombra en cada libro que leo, sólo hallo lágrimas -arañas que tejen un cementerio me nacen de la lengua- , las páginas no me sirven de consuelo, las letras no sirven de consuelo… [la poesía fingió que era lascivia de la baba, nos dijo: soy un pájaro de miel que hace nido en la contemplación del fuego de los voraces; pero no, la poesía es/era/será un animal ciego dispuesto a atacar y matar, la poesía vive del resuello de los náufragos, en medio de la dermis de la neblina, esperando pólvora de jóvenes bestias…] pero volvamos a ti y a mí, volvamos a los zapatos, a tu sombra y tu ropa: que no están en mi piso desdoblando la soledad, ni tu sexo -tumba de garzas protervas- el acantilado donde hundo mis ojos en otoño me ha quedado, la noche se triza fugitiva y furiosa, espero aquel búho del alba que anunciará tu retorno… tu retorno wendy; esperaré por ti y por mis hijos injertados entre tus huesos… he de esperarte en una ciudad colérica e inventada, ¡Ítaca cayó ayer!, solo nos queda el polvo y la tarde… ¡amarnos!, no queda más, ¡amarnos! sobre el vientre de la piedra que se enmohece en silencio, junto al esqueleto de aquel árbol que tatuamos a obscuras… hasta que nuestras sonrisas se hundan nuevamente en la tierra y sobre ellas copulen los insektos…





IX

no encontré tus huellas
bajo de mis párpados
abandonadamente te pedí
un halo sucio de esperanza
dijiste
quizá algún día exista
el amor entre una elefanta y un perro
Mientras te ibas desnuda caótica y brutal









La costa

A CarloLuis Ortiz,

a tu salud,
por la biela y por el abrazo inmortal 

en ese espacio comprendí la soledad de las algas
la tragedia de los negros,
el sudor marino de las conchas…
no te encontré dios, ¡no te encontré!,
pero tropecé con una puñalada y con un amigo destruido
por la sal de los días…






Polly

Let me clip
Your dirty wings
(Polly-Nirvana)


Polly duerme,
no mires a tu padre,
está sucio, manchado
entiende que la tristeza
es un pulpo que recorre las venas,
no juzgues
cierra tus ojos negros
descansa el rostro sobre la sangre de tu padre
encuentra alegría entre sus glóbulos –mastíkalos-
abre sus pupilas para que vea el sonido que dejo en tus uñas,
Polly, muñequita triste
sombra solitaria,
Kurt ha muerto
[Una ballena encalló en su corazón]
no sientas miedo que él cuida de ti
acaricia tu pelo en las noches
cuando los coyotes bajan en busca de más sangre,
Polly, todos llevamos un muerto por dentro,
pero pocos lo usamos…




PAOLA BALLERINI [10.760]

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Paola Ballerini

Paola Ballerini

Nació en el 1962 en Florencia, ITALIA  ciudad en la que actualmente vive. Titulada en Filosofia también ha realizado estudios en el campo de la psicologia. Sus textos han aparecido en la revista “Semicerchio”. Su colección “Nell’arcipelago cresce l’isola” ganó el premio ClanDestino 2009 como opera prima y fue publicada por el editor Raffaelli. Es coautora del libro “Varienati Urbane mappa poetica di Firenze e ditorni” que obtuvo la certificación microeditoria de calidad 2011, editorial Democle. En el 2012 algunos de sus textos fueron traducidos y publicador en la revista serba “Agon”

 Traducción y notas: Alejandra Craules Bretón
http://circulodepoesia.com/





7, Via de’ Renai

I

La casa era calostro
ojo del mundo
cuadrante solar de mármol
mil imágenes nuestras perdidas en el corredor
que no termina si no en la oscuridad
de la memoria
donde todo se apaga
                        antes de salir.






II

De las almenas de San Miniato
dentro al silencio de los lavaderos
la casa era
                    flujo de lava
víspera de la ciudad
parámetro despedazado
de la memoria de generaciones.






III

Fragua ciclópea
la casa
alimentaba el incendio para
forjar rayos celestes
y nuestros cuerpos de niños
                      sustraídos de la luz
escondidos en venas hidrotermales como
minerales.





IV

Vigilaba la orilla
la casa encallada en el umbral de la oscuridad
ahora es sólo una idea paralela
                       al caos
mezcla de fierro y oxígeno.





ROBERTO CESCON [10.761]

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Roberto Cescon

Nació en el 1978 en Pordenone, ITALIA donde vive y enseña. Ha publicado “Vicinolontano” (Campanotto, 2000), el ensayo “ Il polittico della memoria. Aspetti macrotestuali sulla poesía di Franco Buffoni” (Pieraldo, 2005) y “La gravità della soglia” (Samuele Editore, 2010). Es uno de encargados de la Fiesta de poesía de Pordenone y colabora en la organización del festival literario Pordenonelegge.it. Es uno de los organizadores del Premio Teglio Poesía y del Premio Castello di Villalta Poesía. Su blog es robertocescon.com.

Traducción y notas: Alejandra Craules Bretón
http://circulodepoesia.com/nueva/2013/12/poesia-italiana-actual-parte-3/








La dirección de las cosas

La mano sobre el despertador detiene la noche
en el tiempo que aún nos tomamos.

La persiana corta los contornos.

El agua del radiador es el inicio
del día, las cosas que hacer.

Si digo pantuflas, armario, percha,
Sé como llegar a la puerta.

La dirección de las cosas está en las palabras
que digo, pero existe antes.

Cuando me golpea, busco palabras
para decirla, pero muchas veces no es suficiente.

Tal vez en la oscuridad las cosas
tienen su propia inteligencia
porque son más de lo que somos.







Las mujeres de los poetas

Las mujeres de los poetas son santas
kilómetros y tardes para escucharlas
decir siempre bien, estuvo
bien, como de costumbre.

Sonríen en primera fila
pensando que con el premio el poeta
pagará la aseguración.
Sorbiendo tras bambalinas
esperando que no se haga muy tarde.

A veces, después de haberse olfateado
lo necesario, se sientan cerca
de otras mujeres de poetas
hablando de vacaciones, vestidos,
que el poeta no lava la ropa,
y vituperando a los otros juglares,
pesantes e incomprensibles.

Los poetas son muy afortunados
porque las mujeres están junto a ellos
no cierto por dinero,
sino porque el poeta es la cereza
sobre algo que al inicio era perfecto.






La primera vez ese latido
es una ráfaga que aflora
desde la profundidad de las células.

Paradoxalmente la vida es un latido
que disminuye, porque entre sobresaltos
se rebobinan los días.

Anna dice que ese latido
en la pantalla será interista
y ya le gusta la nutella,
como si los deseos fueran plantillas
de hacer compaginar
porque el bien es el revés del miedo.

Se ha activado la cuenta regresiva
para nacer y volverse una criatura
y un otra a lo largo del horizonte
para llegar a ser papá.





Roberto Cescon – poesie

Nato nel 1978 a Pordenone, dove vive e insegna. Ha pubblicato “Vicinolontano” (Campanotto, 2000) e il saggio “Il polittico della memoria. Aspetti macrotestuali sulla poesia di Franco Buffoni” (Pieraldo, 2005). Sue poesie sono apparse nella rivista Atelier (marzo 2012) e suoi racconti nell’antologia “Scontrini” (Baldini&Castoldi, 2004), nella rivista “‘Tina” e su www.ombelicale.it. Ha pubblicato “La gravità della soglia” (Samuele Editore, 2010). È tra i curatori della Festa di poesia e collabora all’organizzazione dei festival letterari Pordenonelegge e Notturni di_versi. È tra gli organizzatori del Premio Teglio Poesia (http://tegliopoesia.wordpress.com). Il suo blog è robertocescon.com.


La direzione delle cose
La mano sulla sveglia ferma la notte
nel tempo che ancora ci prendiamo.
La tapparella taglia i contorni.
L’acqua nel termosifone è l’inizio
del giorno, le cose da fare.
Se dico ciabatte, armadio, servomuto,
so come arrivare alla porta.
La direzione delle cose è nelle parole
che dico, ma esiste prima.
Quando mi colpisce, cerco parole
per dirla, ma spesso non bastano.
Forse nel buio le cose
hanno una loro intelligenza
perché sono più di quello che siamo.






Le cose che compriamo
Andare al supermercato è un modo
di rinnovare le promesse matrimoniali,
riempiendo i carrelli di offerte
e qualche sfizio, dopo esserci chiesti
più volte se vale la pena.
Ci fa sentire una famiglia.
Per le corsie pensiamo cosa manca
nelle antine della cucina bianca.
Alla cassa la commessa bionda
già ci conosce, passa sul rullo i codici
delle cose e noi le imbustiamo.
Lei ormai sa cosa ci piace.
Lo saprà anche di altri.
Le cose che compriamo ci raccontano.
Il mese scorso ha visto il test
dell’ovulazione. Oggi gli assorbenti.







Ecco, sono uscite
L’indice attorciglia i riccioli neri,
il pollice schiaccia veloce i tasti
sulla panchina e allunga la ballerina
sopra la coscia dell’amica,
anche lei tra le borse di ecopelle
muove le dita sul tastierino rosa.
È un maggio che immagina il sole,
un pomeriggio di aiuole e semafori.
Ecco, sono uscite, volevano parlare.







Un vecchio e un bambino
su una panchina del parco.
Il bambino ha le storie tra le mani,
non smetterebbe mai di giocare
perché è un soffio sotto la pelle.
Il vecchio guarda i rumori del parco,
le cose dei giorni sono i luoghi
delle parole.
Un vento li riempie, e gli occhi,
gli stessi, anche se sono cambiati.
Tra i due un libro, l’hanno letto insieme.
Ora è rimasto il tempo di andare
come sono stati.
Un vecchio e un bambino
su una panchina del parco.
Ecco, io sono così.







Le donne dei poeti
Le donne dei poeti sono sante
chilometri e serate per sentirli
e dire sempre bene, è andata
bene, come al solito.
Sorridono davanti
pensando che col premio il poeta
pagherà l’assicurazione.
Sorseggiano in disparte
sperando che non faccia troppo tardi.
Talvolta, dopo essersi annusate
quanto basta, si siedono vicino
ad altre donne di poeti
parlando di vacanze, vestiti,
che il poeta non fa la lavatrice,
e biasimano gli altri menestrelli,
pesanti e incomprensibili.
I poeti sono molto fortunati
perché le donne stanno insieme a loro
non certo per i soldi,
ma perché poeta è la ciliegina
su qualcosa che all’inizio era perfetto.







La prima volta quel battito
è una raffica che affiora
da profondità di cellule.
Per paradosso la vita è un battito
che rallenta, perché tra sussulti
si riavvolgono i giorni.
Anna dice quel battito
sotto lo schermo sarà interista
e già gli piace la nutella,
come se i desideri fossero sagome
da far combaciare
perché il bene è il rovescio della paura.
È scattato un conto alla rovescia
per nascere e diventare creatura
e un altro lungo un orizzonte
per diventare padre.









MARCELO SILVA [10.762]

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Marcelo Silva


Marcelo Gustavo Silva (Quito, 1964) Profesor y poeta, Doctor en Derecho. Con estudios superiores en Literatura y Sociología. Ha escrito los libros de poesía Pre-esencias (Primera Mención de Honor en el Concurso Nacional de Poesía Casa de la Cultura Ecuatoriana y el Ángel Editor)  y  Material de la distancia (Inédito); y el ensayo Arte: arista de lo sagrado. Poemas suyos se hallan incluidos en la Antología ecuatoriana Ciudad en Verso, así como en otras publicaciones nacionales. Ha sido miembro del jurado en los concursos Jorge Carrera Andrade (2008) e Isabel Tobar Guarderas (2009), organizados por el ilustre Municipio de Quito. Actualmente prepara un estudio sobre el símbolo en la obra poética de César Dávila Andrade.
Con el poemario Pre-esencias obtuvo la Primera Mención de Honor en el Concurso Nacional Paralelo Cero 2010-2011. Poemas suyos se hallan incluidos en la antología ecuatoriana Ciudad en Verso, así como en otras publicaciones nacionales. Actualmente prepara un nuevo poemario titulado Materiales de la tierra agreste.







“Quizás en la puerta interior del espíritu
se pueda escuchar el más allá de uno mismo”
( Alejandro Jodorowsky )


Del silencio viene
percibiendo el olor de la sangre

y cuando busca saciar el instinto
registra piedras negras
en sus cuerpos más densos

Carne come

Así deleita su espíritu







** Supo del peso de sus ojos **
de huellas labradas por los astros
 y árboles talados


por la furia del instinto

No conoció el dulce abismo
que luego describimos como cielo
ni aquel oasis rojo
donde se formó su carne

Lo llamaron hombre










(sobre rosas negras
llenas de polvo)

Recorrer el líquido adoquín
en tu palma navegante

En la otra acera
antes del desdoblamiento de la carne
me aguarda un pálido centauro
agitando una manzana

Me llevarà
sin saberlo
 a una calle tejida de rojo – añil
sol salado y sin aliento

que confunde las líneas de mi espacio
y separa la mente de mi cuerpo

bajo el lejano

golpeteo de tu carne








( hendiduras )

Mi primer beso fue a un hueco

Hoy lo lleno con saliva y saliva
labios que lamieron el vacío

bocas

sabor intenso de  las ratas

Como es de suponer
mi primer beso fue al aire
y el aire me dio más que todas esas bocas

Me dio la vida …

sin pedirme nada









( carencias )

“ La luz que nos hiere
Es un filo cada vez más sutil ”
(Giuseppe Ungaretti)


No bastaba
que un beso espeso
cubra tus pechos fragmentados
ni que mi lengua encallara

insinuante

en tu cavidad más jugosa
 –firmamento a punto de estallar– 

Faltaba
el pequeño remanente que el cielo nos robó
un instante inacabado
para que la luz prendiera

ángeles

que furiosamente calienten nuestra piel








“¡De qué perdida claridad venimos!”
( Blanca Varela )

Cuando no existía infierno ni vampiros
ya éramos animales de la luna

Existíamos pegados al recuerdo
de horas más livianas

Rozábamos las piedras
–sombras incompletas–

El éter era aún llama líquida

y el hidrógeno

no unía cautivas formas

sin embargo en el tiempo no había niebla


Éramos animales de la luna
y aspirábamos a colmar la tierra

o al menos

humedecerla con sonidos y cometas
– fuego y lluvia para la futura carne –

Éramos animales de la luna
pero la luna nos expulsó muy pronto de su lecho

Sufrimos








¿El silencio?

Forma pura del sonido

Mercurial materia
cuando escucho menstruar la noche









(pecado original)

“De eternidad se tejen los malos tiempos”
( Juan M. Roca )


En el acto primigenio
cuando fuimos bautizados por el fuego
la serpiente nos parió

Nuestras cabezas rodaron entre el espejo y la caverna

Nuestros ojos ya no eran nuestros ojos:
eran cuervos abanderados de la muerte

Nuestras manos no lamían el rocío:
se hicieron garras que picaron como arañas

Nuestros pies               luego pezuñas ya no andaban

Sólo mataban sueños
mordiendo la distancia

No asimilamos el sonido de los astros que hacen el amor
apenas percibimos gemidos de ancianos suplicando perdón

Después

ante tanto salvajismo

inventamos el infierno

sin pensar que cada día nos quemamos
en un mundo uno pero siempre divisible

de un dios errático

que casi siempre ignoramos



     



(metamorfosis 1)

Alguna vez tuve un río
el aire que endulzaba los cipreses
un Dios resucitado

Alguna vez caminé por un pasto sano
pisé vidrios sin herirme
ascendí por cumbres embrujadas
–silencio y sombra bajo una luna magra–

Alguna vez tuve la certeza
que mis pasos y mis sueños

formaron parte de lo humano








Temblor de alas
y un corazón cubierto por sombras

colmillos que giran
tras el hervor de un húmedo cuello

Ni aullidos ni hechizos

Sólo el vapor de la noche

presagiando la sangre






RAMIRO CAIZA [10.763]

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Ramiro Caiza

Victor Ramiro Caiza Guamán
FECHA DE NACIMIENTO: 19 de abril de 1963
NACIONALIDAD: Ecuatoriana
Poeta, periodista y ensayista, con amplia experiencia en gestión sociocultural. Redactor, editor y director de medios impresos en Ecuador y España. Ha sido presidente de varias entidades culturales dentro y fuera del Ecuador.  Conferencista a nivel nacional e internacional con temas de sociología, antropología, comunicación, literatura e historia. Fundador y Presidente de la Casa de la Cultura Ecuatoriana en el Cantón Mejía y de la Casa de la Cultura Ecuatoriana Núcleo de Cataluña en Barcelona, España. Director de cultura en la Educación Intercultural Bilingüe del Ecuador. Fue director de Cultura y Educación del Municipio de Mejía. Coordinador General de los Festivales Internacionales de Escultura Monumental Mejía eScultura 2010 y 2011. Tiene publicados 18 libros entre ensayo y poesía.





A LOS GOBERNANTES

Nueva legitimidad en el mandato
caricia de triunfo encendido 
baile del testaferro en el tablado
sonrisa pasajera en los adictos.

El viento trae el mensaje altivo
de quienes combatieron el discurso
palabra enajenada a sus lacayos
rendición a ofertas frívolas.

Pasan los insolentes con traje
llegan los blasfemos de luto
se juntan al canto mañanero del triunfo.

Permanece la señal dormida en un rincón
el pueblo errante desafía lo reciente
beber el cáliz no amortigua la caída.









TODAVIA SOÑAMOS

No me marcharé sin despedirme
la esquina está distante todavía
la carne huele a pólvora y desencanto
gruñen fieras estampas en los diarios.

No me marcharé temprano
la noche aún está tierna
los pasos de mis mayores
descifran el lento trajinar.

Nos queda el trecho inobjetable
el espacio nefasto para la vida
un paso en falso y seremos historia.

Este bello riesgo quiero atravesarlo
de cabo a rabo conocer la ruta
aunque en este tramo se agote la vida.









ANACORETA CON CAUSA

A esta hora duermen las campanas
el grillo habita su madriguera
en plena noche surca tu imagen
solo la luciérnaga es vigía inconsolable.

La distancia entre dos puntos
depende de la dosis de ternura
cuando son dos anacoretas
que rondan lo prohibido a cada paso.

Llamo a tu puerta imaginaria
para escupir mi verso excluido
labrar en los airones mi verdad.

Gritar en el alma de la noche
mi canción prohibida por endiosados
sin malgastar el ritmo peregrino del hechizo.






EL  PASO CONDENADO

Tengo la sed del dromedario
después de cargadas distancias,
con el equipaje herido transito
las estancias de arena,
he visto huir al silencio en estampida
esconderse entre las dunas solitarias
y despertar en el oasis inicial.
Reseca mi boca aspira
el aliento del desierto,
la tormenta hierve cálida,
mis ojos lastimados admiran
el paso condenado de la serpiente,
viajo en noche fresca
noche de luna creciente.
La piel sudorosa confirma el final
el recorrido pausado desde la orilla,
silba el viento la canción macabra
de geografías ignoradas,
de tiempos idos
de aguas evaporadas
de fuegos apagados
de conquistas aplazadas
de muertos sin funerales.

Desde esta esquina, Quito, 2009


ARAÚJO PÔRTO-ALEGRE [10.764]

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Manuel de Araújo Porto-Alegre

Manuel José de Araújo Porto-Alegre, barón de Santo Ângelo (Rio Pardo, Río Grande del Sur, Brasil; 2 de noviembre de 1806 – Lisboa, Portugal; 29 de diciembre de 1879), fue poeta y dramaturgo, precursor del romanticismo brasileño, así como pintor, arquitecto, urbanista, periodista, caricaturista, crítico e historiador de arte, profesor y diplomático. Es patrón de la silla número 32 de la Academia Brasileña de Letras.

Manuel José de Araújo nace el 2 de noviembre de 1806 en la pequeña villa de José de Rio Pardo, en Río Grande del Sur. Hijo de Francisco José de Araújo y de Francisca Antônia Viana. Queda huérfano de padre a los 5 años de edad, haciéndose cargo de su educación su padrastro. En 1816 se muda a Porto Alegre. Una vez más, pierde a su padrastro a los 12 años de edad. Se emplea a los 16 años como ayudante en una joyería de Jean Jacques Rousseau donde conoce a su primer profesor de diseño, el pintor francés François Théry, con quien inicia sus estudios de pintura y diseño y, más tarde, con los escenógrafos José Simeão, Manoel José Gentil y João de Deus, para así después poder ganarse la vida como pintor profesional. Trabaja como escenógrafo en la Casa de la Ópera. A finales de 1826, consigue embarcarse con destino a la Corte decidido a estudiar con el pintor Jean Baptiste Debret después de haber visto una reproducción del Desembarque de la Archiduquesa Leopoldina del maestro francés.
Llega a Río de Janeiro el 14 de enero de 1827, para matricularse en la Academia Imperial de Bellas Artes - Aiba, donde es alumno de Debret y del arquitecto Grandjean de Montigny. Así mismo, cursa en la Escuela Militar, estudia anatomía y fisiología en la Facultad de Medicina, y toma lecciones de filosofía de Fray José Policarpo de Santa Gertrudes.

Viaje a Europa

El 25 de julio de 1831 viaja a París para perfeccionarse como pintor en compañía de su maestro y amigo, Debret, quien dejaba definitivamente Brasil. En París conoce al escritor portugués Almeida Garret. En Francia se matricula en la Escuela Nacional Superior de Bellas Artes de París (1832) y frecuenta el atelier del barón Antoine-Jean Gros. Se hospeda en un cuarto de la casa del hermano de Debret, el arquitecto François Debret, donde puede conocer buena parte de la generación romántica parisiense: los compositores Gioacchino Rossini, Daniel-François Auber, François-Adrien Boïeldieu, Luigi Cherubini y Ferdinando Paer. Así entra en contacto con las discusiones del grupo y con sus obras.
Viaja a Italia, en 1834, y en Roma estudia con el arqueólogo Antonio Nibby. En 1835 viaja a Inglaterra, Holanda y Bélgica con su amigo, el poeta Domingos José Gonçalves de Magalhães.
En 1836, funda en París, con Gonçalves de Magalhães y Francisco de Sales Torres Homem, la revista Niterói, en la cual publica su poema Voz de la naturaleza (Voz da natureza) compuesta en Nápoles.1 A pesar de su corta vida, dos números editados, se le considera el marco inicial del romanticismo literario de Brasil.
Regresa a Río de Janeiro en mayo de 1837, en donde desarrolla una intensa actividad artística, educacional, administrativa y literaria. Entre sus actividades están las de arquitecto, profesor de diseño, poeta e, inclusive, crítico e historiador de arte, área en el cual también es considerado como fundador de la disciplina en Brasil.

De vuelta en Brasil

Entre 1837 y 1839 realiza las primeras litografías satíricas hechas en el país, vendidas en unidades separadas por las calles de Río de Janeiro. La primera circuló el 14 de diciembre de 1837, vendida por 160 reales, tenía por título A campainha e o Cujo, aunque sin firma (su autoría sería reconocida posteriormente), donde representaba al periodista conservador Justiniano José da Rocha, director del diario Correio Oficial, ligado al gobierno, recibiendo un saco de dinero. A ésta la seguiría una más intitulada A Rocha Tarpéia.
En el año de 1837 asume la cátedra de pintura histórica en la Aiba, cargo que ocupa hasta 1848, año que pide su transferencia a la Escuela Militar para trabajar como profesor de diseño.
En el año de 1838 contre matrimonio con Ana Paulina Delamare. Ese mismo año es nombrado profesor interino de diseño del Colegio Pedro II, y se le invita a formar parte de la recién creada Sociedad Teatral.
En 1840 es nombrado pintor de la Cámara Imperial, siendo responsable de los trabajos de decoración para la coronación del emperador Pedro II. Para la ocasión, Araújo Porto-alegre diseñó un pabellón que consistía en un templo central adornado con escenas históricas representando la (aún bastante breve) tradición dinástica brasileña, enriquecidas con grandes medallones que invocaban a Carlomagno, Francisco II, Napoleón y Pedro el Grande, y en dos galerías laterales cuyos nombres –Amazonas y Plata– junto con las esculturas de Marc Ferrez, alegorías de los ríos cardinales, simbolizaban la extensión territorial del Brasil. También fue responsable de los trabajos de decoración de las nupcias imperiales, en 1843, del emperador Pedro II con Doña Teresa Cristina, además de la decoración interna del Palacio Imperial de Petrópolis. En 1840, es nombrado Caballero de la Orden de Cristo y Caballero de la Rosa.
Funda con Gonçalves de Magalhães y Torres Homem la revista Minerva Brasiliense (1843-1845), en donde publica algunos versos del poema Brasiliana, que será publicado íntegro en el año de 1863.
Porto-alegre, junto con Torres Homem, lanza en 1844 la revista Lanterna Mágica, primera publicación de humor político de la prensa brasilera, ilustrada con caricaturas, que circuló con 11 ediciones. La publicación que tenía como subtítulo Periódico plástico-filosófico, presentaba dos personajes que criticaban las situaciones del momento, Laverno y Belchior, a semejanza de Robert Macaire y Bertrand, creados por el caricaturista francés Honoré Daumier. Tiene en Rafael Mendes de Carvalho su principal diseñador.
En 1848, se desliga del grupo de artistas ligado a Félix Taunay, como Cabral Teive, Correia de Lima y Louis Auguste Moreaux, abandonando la academia (Aiba). Así pasa a dar clases de diseño en la Escuela Militar.
En 1849 funda con Joaquim Manoel de Macedo y Antônio Gonçalves Dias la revista Guanabara (1849-1856), que es considerado como una especie de diario oficial del romanticismo.

Dirección de la Academia Imperial de Bellas Artes - Aiba

Más tarde ingresa en la política, y en 1852, asume el cargo de concejal suplente en la Cámara Municipal de Río de Janeiro, prestando servicios en las áreas de urbanismo y salud pública, cargo que ocupa hasta 1854. Ese año presenta un proyecto de reforma de enseñanza en Aiba a petición del emperador, quien aprueba las ideas y, Araújo Porto-alegre pasa a ser director de esa institución. Esta reforma, siendo la más importante para la academia en el período monárquico, fue realizada con el apoyo incondicional político y financiero del emperador Pedro II. Fue conocida como la Reforma Pedreira, del 14 de mayo de 1855, substituyendo a la Reforma Lino Coutinho del 30 de diciembre de 1831, y pasó a orienta las actividades de la Aiba hasta el declive del Imperio. Esta reforma tuvo el objeto de adecuar la institución al proyecto de modernización y auxiliar al país a ocupar su espacio junto a las naciones civilizadas europeas al promover el progreso de las Artes en Brasil.
Como director de Aiba, entre 1854 y 1857, promueve la ampliación del área construida de la institución anexando el Conservatorio de Música y la Pinacoteca. Establece una serie de reformas en el currículo de los métodos de enseñanza de la academia, que incluían el contenido de las disciplinas, las atribuciones de todos los profesionales de la institución, los días lectivos y la cantidad de feriados, y hasta los castigos por indisciplina. Implementa nuevas materias como matemáticas aplicadas, teoría de sombras y perspectiva, y diseño industrial. Busca introducir la técnica de acuarela en la enseñanza de pintura de paisajes. Amplía el plazo de permanencia de los alumnos premiados para viajar al exterior de tres a seis años. La reforma privilegia la pintura histórica al tenerla como principal género artístico y estar directamente envuelta en la construcción de una identidad nacional. La pintura histórica ganó visibilidad con sus pintores oficiales, Pedro Américo y Victor Meirelles. Como director de la institución, adapta los progresos técnicos, y crea una nueva forma de expresión artística que corresponde a la realidad brasileña. En su reforma también hizo posible la definición del espacio social del artista, hasta entonces visto de manera peyorativa por estar vinculado al trabajo manual. Sin embargo, enfrenta, una vez más, resistencia del grupo de Taunay. Los desentendimientos lo llevan a desligarse definitivamente de la institución en el año de 1857.
Últimos años, retorno a Europa[editar · editar código]
En 1860 ingresa en la carrera consular, sirviendo como cónsul de Brasil en Prusia, con sede en Berlín, después en Sajonia, con sede en Dresde (1862-1866), y finalmente en Lisboa (1866-1879). En 1867, coordina la Sección de Bellas Artes de Brasil en la Gran Exposición Universal de París. A finales de 1869, su ex-alumno, el pintor Pedro Américo contrae matrimonio con una de sus hijas, Carlota. En el año de 1874, el emperador Don Pedro II le confiere el título de barón de Santo Ângelo. A pesar de los títulos que las buenas relaciones con el emperador le rindieran, éstos no se traducirían en recursos económicos, y Porto-alegre muere pobre, sin dejar haberes para su familia. Fallece el 29 de diciembre de 1879 en Lisboa. Sus restos regresan a Brasil en 1922, y 7 años más tarde se transfieren a Rio Pardo, donde éstos reposan.

Obra

Periodista, historiador y crítico de arte

Considerado como fundador de la historia y de la crítica del arte brasilero, escribe diversos artículos como Memoria sobre la Antigua Escuela Fluminense, publicado en el año de 1841, Valentim da Fonseca e Silva, Francisco Pedro do Amaral, Algunas Ideas sobre las Bellas Artes en la Industria en el Imperio del Brasil, además de diversos artículos de música. También colabora con frecuencia en otros medios como el Journal de I'Institut Historique de France, Aurora Fluminense, A Reforma, Revista Brasileira, Nova Minerva y la Revista do Instituto Histórico e Geográfico Brasileiro.

Obra pictórica

Estudio para panel decorativo, acuarela y nanquín, 1851, acervo del Museo de Arte de Rio Grande do Sul Ado Malagoli.
Porto-alegre deja una pequeña obra pictórica y de valor desigual, en los que hay retratos, cuadros históricos, paisajes, etc. Destacan el de Garret en el cerco de Oporto (Garret no Cerco do Porto, 1833), los retratos del Visconde de Araguaia, de Doña Luísa Rosa, de Don Pedro I (1830) y la Coronación de Don Pedro II (Coroação de Dom Pedro II, 1844), que quedó incompleto, todos actualmente en exhibición en el Museo Imperial de Petrópolis. Otros cuadros suyos se exhiben en el Museo Nacional de Bellas Artes.

Obra arquitectónica

Araújo Porto-alegre tenía gran interés por la arquitectura. Fue alumno de Grandjean de Montigny en la Academia Imperial de Bellas Artes – Aiba, y más tarde en 1834, en Roma, estudió bajo el arquitecto Luigi Canina. Después de su regreso de Europa, en 1837, ejecuta diversos proyectos arquitectónicos en Río de Janeiro, de los cuales se destacan las obras realizadas los palacios Paço da Cidade, Paço Imperial de São Cristóvão (actualmente Museo Nacional de la Quinta da Boa Vista), el Palacio de Verano del emperador, la antigua sede del Banco de Brasil en la Rua da Candelária, demolida en 1937, el edificio de la Iglesia de Santana (nunca ejecutado), el plano arquitectónico de la Escuela de Medicina y la Aduana (Alfândega) de Río de Janeiro, en 1858.

Obra literaria

Usó como pseudónimo el de Tibúrcio do Amarante, nombre que usó para publicar su Extractos de las memorias y viajes del Coronel Bonifácio de Amarante (Excertos das Memórias e Viagens do Coronel Bonifácio de Amarante) "publicado con anotaciones por el Teniento Tibúrcio de Amarante" en la revista Íris en 1848, y reimpreso como un libro en 1852 en la tipografía de Paula Brito, y en la revista A Marmota en 1858.2 Forma parte del primer grupo romántico brasilero, cuya poesía es marcada por un fuerte nacionalismo. Abandona la mitología clásica en provecho de la temática nacional. Se destaca su poema épico Colombo, de más de 20.000 versos, en el cual trabajó desde 1840, publicando episodios en revistas de época a partir de 1850. Deja publicados 135 trabajos de literatura, 20 piezas teatrales y cuatro traducciones.

Obras

Poesía

Ode Sáfica (1830), dedicada a Jean Baptiste Debret.
Voz da natureza (1836)
O Caçador (1843)
Brasiliana I (1844)
O Voador (1844)
Brasiliana em Três Cantos (1845)
O Corcovado (1847)
Canto inaugural (1859)
As Brasilianas (1863)
Colombo, poema épico, 2 tomos (1866)
Teatro[editar · editar código]
Angélica e Firmino (1845)
A destruição das florestas (1845)
A estátua amazônica (1851)
Cenas de Penafiel (1858)
Os judas (1858)
Os lobisomens (1862)
A escrava (1863)
Os lavernos (1863)
O rei dos mendigos (1866)
Os voluntários da pátria (1877), escrita en ocasión de la Guerra del Paraguay
Os toltecas
Os ourives
Os traidores
As barras de ouro
As sapatero politicão
Dinheiro é saúde
O espião de Bonaparte
Libretos para ópera[editar · editar código]
Prólogo dramático (1837), , música de Cândido José da Silva
A noite de São João (1857)
A restauração de Pernambuco (1858), música de Gianini
O prestígio da lei (1859), música de Francisco Manuel da Silva
Dom Sebastiāo
A véspera dos Guararapes

Narrativa

Excertos das Memórias e Viagens do Coronel Bonifácio de Amarante (1848)

Artículos sobre arte

Etat des Beaux-Arts au Brésil en el Jornal de l’Institute Historique (1835)
Memória sobre a Antiga Escola Fluminense de Pintura publicado en Revista do Instituto Histórico e Geográfico Brasileiro (1841)
Algumas Idéias sobre as Belas Artes e a Indústria no Império do Brasil publicado en la revista Guanabara (1850)
Iconografia Brasileira com as biografias do Padre José Maurício Nunes, Valentim da Fonseca e Silva e Francisco Pedro do Amaral publicado en Revista do Instituto Histórico e Geográfico Brasileiro (1858).

Traducciones

Electra, de Eurípides
Lucrecia Borgia, de Victor Hugo
Cristina de Suecia, de Alexandre Dumas.

Correspondencia

Cartas a Monte Alverne (1964)
Correspondência com Paulo Barbosa da Silva, en la Colección Afrânio Peixoto, de ABL (1990).





PALABRAS DE BOABDIL 

(Fragmento del poema Colombo, 
Prólogo, I, El Triunfo.) 

¡Estaba escrito!... No por vuestras armas 
Mi trono se abatió; ¡ lo quiso el hado! 
Aben Hassán, mi padre—Dios le guarde— 
Vio a la derrota y a la triste estrella 
Del infortunio estar sobre mi cuna. 
Mi fin predijo el cielo; y un fatal 
Decreto hizo bajar Alá a este mundo. 
Aquí mismo, Señor, en la atalaya, 
Cuna y sepulcro de grandeza humana, 
Una horrenda visión tuvo él un día, 
Nefasto en los anales de la Hégira. 

¡Estaba escrito! 
Los brazos granadís encadenados 
A los cristianos en la fuerza igualan, 
Las aguas del Genil dan temple al hierro 
Para el hierro cortar de vuestras armas... 
¡Alá fue quien venció!... ¡Ante mis ojos 
Veo a Julianes y Oppas, refractarios 
A las promesas que el Corán contiene! 
Ni la esposa me queda, que el mal hado 
Me hizo repudiar, cubrir de oprobio, 
Negando el amor suyo!... Sangre, sangre, 
Abencerraje sangre en todas partes 
Ahoga mi esperanza para siempre. 
Nací en un día aciago... Os doy las llaves. 
¡Una gracia, Señor!, sedme piadoso: 
Tolerad el Corán: es para el moro 
Una guía del cielo. Y otra gracia: 
Mandad que un albañil la puerta mure 
Por donde Boabdil bajó del trono. 






O TRIUNFO

Troam na Ibéria os hinos da vitória
Que Fernando e Isabel do Mouro houveram.
Jaz vencida Granada! A cruz guerreira
Da moderna cruzada resplandece
No rubro cimo de atalaia altiva
Que domina de Alhambra os régios muros
E os zimbórios vidrados das mesquitas,
Assentados no grêmio augusto e belo
Da abatida sultana do Ocidente!
Jaz vencido o Corão: no santo aprisco
Repousa a Espanha à sombra do Evangelho.
Na ridente esplanada, ovantes, firmes
Como troncos de ferro, ao sol fulguram
Pautados esquadrões, lúcidas armas.
Rebombam no horizonte em densas nuvens
Os estrondos da rouca artilharia,
Que dos rinchos equinos aumentados,
E do rijo clangor das márcias tubas,
D'alto a baixo as montanhas estremecem
Sobre o crânio hibernal das Alpuxarras
Estala o diadema eterno e frígido
De níveas carambinas; geme a terra:
Revolve o Darso antigo leito, e méscla
De áureas palhetas as sangrentas águas,
Onde exangues cadáveres flutuam.
Retremem os zimbórios esmaltados
Dos islâmicos templos. Pavorosa
A sombra de Almansor, banhado em sangue,
Do poente jazigo em que dormia,
Se ergue, e lá foge ao funeral de um trono
Que o seu braço escudara em cem batalhas.
Jaz vencida Granada!...





Extraído de:

OLIVEIRA, Alberto de; JOBIM, Jorge, org. Poetas brasileiros. Tomo Primeiro. Rio de Janeiro: Livraria Garnier, 1921. 395 p. capa dura revistida com tecido. 14x19,5 cm.



A DESTRUIÇÃO DAS FLORESTAS 

(Canto II)

A QUEIMADA

Quebrou-se a mola ao mechanismo excelso 
Do secreto artificio da Natura ! 
O sol que outrora vida diffundia 
Sobre a panda alcatifa da floresta, 
Hoje resecca as monstruosas ruínas 
Desse templo sagrado, onde mil flores 
Nas perfumadas aras entretinham, 
Como vestaes, a sacrosanta essência.

Embora do labor, fumega a terra 
Mephitico vapor, que o rosto inunda 
De suor, e nó peito anciãs revolve, 
E ao afro escravo dá vigor aos membros 
Que outrora em descampados embalara
Ígneo suão da Lybia abrasadora.

Como moimentos que elevara em montes
Guerreira prole a seus valentes mortos, 
Ou de insulanos bárbaros pagodes 
Talhados postes, monstruosos hermes, 
Que em renque affinca oriental idolatra :
Taes se afiguram os troncados toros 
Que em pé deixara o cauteloso ferro.

É hora do labor, soa a busina ;
E leda turma, que abatera a selva, 
Preliba gosos na hecatombe immensa, 
Que em breve as serras cobrirá de fumo, 
Como se dó vestisse a Natureza !

E' hora do labor, soa a busina ;
No córneo isqueiro a pederneira encosta 
O guapo capataz, e alçando a dextra
Move o fuzil; rebentam as faíscas,
E no âmago da mecha comburente 
Se embebe o fogo, e bafejado augmenta. 
Nas relíquias de pútridos madeiros 
Derrama a isca, cuidadoso sopra,
Activa a flamma que espadanas brota, 
E de grossas vergonteas a robora ;
Divide os fachos, repartindo a gente, 
É com um, brado commanda o holocausto.

Por cem partes da terra nuvens se erguem 
De brancos fios, que simulam plumas,
Como os pennachos do crinito tyrso, 
Que a palma extremam dos ubás farpados. 
Estridente soido o espaço enchendo, 
Dá signal às descargas incessantes, 
Que rolam, como em fogo de alegria 
Nos faustos dias que a nação consagra. 
Como um bosque encantado e fluctuante, 
O fumo de improviso se modela ;
Vivas linguetas, trisulcadas, varias, 
Surgem do centro, como troncos ígneos ;
E ao som das salvas, do estampido estranho, 
Dos madeiros que estalam, se ergue o incêndio ;
E o intenso gaz dos cálidos vapores
No céo tremula, e nas visinhas plagas,
Qual vaga crespa ao respirar dos Euros.

Na bocca agita o dedo, e trina um grito 
O ledo escravo, que africana crença
Na pátria lhe ensinou para desta arte 
Chamar os ventos a engrossar o incêndio !

Cresce e se alarga um nevoeiro espesso 
De açafroada côr, que em largas curvas 
Anovellado sobe, e tinge o limbo 
De cambiantes pérolas ; na terra 
Lavra a fogueira, calcinando os troncos ;
É aqui e alli, em ramalhetes ígneos, 
As seccas folhas pelo ar volteara. 
Por entre a turva massa que se encopa 
Em negros turbilhões, se expande o fogo;
Abre-se em antros de sulphureo aspecto, 
Retalha-se, agglomera-se, enrolando-se, 
Em porfiados globos. Sopra o vento, 
Descortina através da ardente fragoa, 
Dançando alegres com brandões medonhos, 
Em tripudio satânico os escravos ! 
Como Brontes, em rija vozeria, 
Pelo bafo do inferno ennegrecidos.

Como um combate de travadas fúrias, 
Em que a morte vomita por cem bocas
Cerrada chuva de inflammadas bombas, 
De cruzados pelouros que se esmagam, 
E no choque reciproco se annullam ;
E além, nos muros de possante alcaçar 
Arde e rebenta o armazém da pólvora, 
Toldando o ar, e estremecendo a terra :
Tal se afigura o pavoroso incêndio, 
Que se alarga, progressa, trovejando, 
Como se um genio do infernal abysmo 
Abrisse os antros em que habita a noite, 
E de hórridos phantasmas povoasse 
Os céos e a terra, com medonho estrondo.
Que estranha confusão, que accento horrível 
À voz da ruina inopinada mescla 
A Natura, e redobra o quadro hediondo, 
No conflicto mostrando scena insólita !

Na escura tapa de embrenhadas furnas, 
Nesses ínvios covis de soltas rochas 
Que rorantes cascatas desabaram, 
Desperta o fumo as monstruosas serpes,
Que eterna guerra ao fogo decretaram! 
Em amplas roscas como raios surgem 
Atras surucucús varando os bosques, 
Fendem os brejos, nas campinas voam, 
E à queimada arremettem furibundas ! 
Como montantes que manobram Cides, 
A cauda vibram que na terra rufa, 
Como rufa o tambor em campo armado ;
Arfando irosas três medonhos roncos,
Erguem o eólio, fuzilando fúrias,
E à chamma investem com damnado arrojo!

Nem as roqueiras que os bambus ribombam 
E o fremente estridor que o vento engrossa, 
Nem o bafo da morte a fúria abalam 
Desses monstros raivosos ! Implacáveis 
Umas com a cauda batalhando, cegas, 
Os braseiros espalham destemidas ;
Outras se enroscam nos tostados postes, 
E do alto de novo um bote atiram;
Aqui e alli com tresloucados golpes
O ar atroa a serpentina sanha.
Ora enroscando o chamuscado corpo
Na cinza ardente, que lhes cresta a pelle,
Jazem vencidas, e um nó gordio enlaçam;
Ora convulsas arquejando morrem
Sobre o leito inflammado que as devora ;
E no exicio medonho expiram todas, 
Da güela expellindo atro veneno !
Venceu o incêndio dos reptis a sanha
E triumphante, impetuoso, lavra,
Lambendo os troncos com as vorazes chamas;
Redobra o brilho com o investir da noite,
E o céo de iogo colorindo e a terra,
Num pélago de sangue envolve tudo!







Homem das artes e das Letras, deixou aproximadamente 150 obras entre poesias, peças de teatro e traduções. Dentre elas, as mais famosas são: o livro de poesias Brasilianas (1863), o poema épico Colombo (1866), e a peça de teatro Angélica e Firmino (1845).

Veja um trecho do poema Colombo:

(...)

De um salto juvenil pisa Colombo
A nova terra, e com seguro braço,
A bandeira real no solo planta.
Beija a plaga almejada, ledo e chora:
Foi geral a emoção! Disse o silêncio
Na mudez respeitosa mais que a língua.
Ao céu erguendo os lacrimosos olhos,
Na mão sustendo o Crucifixo disse:
“Deus eterno, Senhor onipotente,
A cujo verbo criador o espaço
Fecundado soltou o firmamento,
O sol, e a terra, e os ventos do oceano,
Bendito sejas, Santo, Santo, Santo!
Sempre bendito em toda parte sejas.
Que se exalte tua alta majestade
Por haver concedido ao servo humilde
O teu nome louvar nestas distâncias.
Permite, ó meu Senhor, que agora mesmo,
Como primícias deste santo empenho,
A teu Filho Divino humilde of’reça
Esta terra, e que o mundo sempre a chame
Terra de Vera-cruz! E que assim seja”.
Ergue-se e o laço do estandarte afrouxa:
Sopra o vento, desdobra-o, resplandecem
De um lado a imagem do Cordeiro, e do outro
As armas espanholas. Como assenso
Da divina mansão, esparge a brisa
Um chuveiro de flores sobre a imagem,
Flores não vistas da européia gente!



ELEAZAR RIVERA [10.765]

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Eleazar Rivera

Nació en Santo Domingo, EL SALVADOR en 1976. Profesor y Licenciado en Letras graduado de la Universidad de El Salvador. Perteneció al Taller de Letras TALEGA. Ha recibido los siguientes galardones: Premio María Escalón de Núñez, Premio Centroamericano de Poesía Pablo Neruda (Costa Rica, 2004) Primer Lugar en los Juegos Florales de Sosonate (2005), Primer Lugar en los Juegos Florales de Santa Ana (205 y 2006), Gran Maestre en Poesía (CONCULTURA, 2006), Premio Internacional de Poesía Joven La Garúa (España, 2006) y Primer Lugar en los Juegos Florales de Santa Rosa de Copán. Es parte de las antologías poéticas: Juego Infinito, del Taller Literario TALEGA (1999), 500 años de Prosa y verso (Sao Paulo, Brasil, 2000), Los Ángeles También Cantan (Lima, Perú, 2006) y Lunáticos, poetas noventeros de la posguerra (San Salvador, 2012).  Ha Publicado tres libros de Poesía: Escombros (2003), Crepitaciones (2006) y Ciudad del Contrahombre &  Noctambulario (2008). Ha publicado los libros Escombros, Crepitaciones y Ciudad del Contrahombre & Noctambulario.

“Crepitaciones” es un libro distinto, vital, fuerte y seguro de sí.  El autor usa su cultura al servicio de su causa definida, de las necesidades íntimas de expresión y de propuestas abiertas al mundo del lector.  Arte y vida se configuran en una unidad indisoluble, categorizando dos elementos claves de la literatura contemporánea: aproximación de la estética (belleza) a la ética (conducta), relacionando estos elementos como construcciones verbales de alto vuelo poético, pero también como síntesis vigorosa de pensamiento y acción.






Recuento de la ausencia

Seis años después del adiós, resulta difícil sentarse a ver la televisión y olvidarse de todo. Resulta difícil sacudir los escombros sin pensar en el duelo de los años; y es que aquí, el tiempo no es tiempo. Las horas son grises. El reloj tiene la pausa del inanimado: se detiene; se añeja y nos martilla. Reviso los pasos, las espinas, los espejos. Con el hígado en una mano y un puñal en la otra, no hay más que el diario personal del que se desviste en la página en blanco para sangrar hasta la última palabra.

Repito: aquí el tiempo no es tiempo, es la farsa más grande que hemos inventado.






Escombros

Heme aquí con la simple pretensión del aire. En el pecho de una voz sin carne. En la explosión de un juego sin palabras. En la ebriedad mágica de un paisaje. Camino del ritual sin sombra. Crepúsculo milenario de un naufragio. Paraje de la última estación de un poeta. Heme aquí con los faroles del desenfado. Con el desdén de auroras y volcanes. Con la luz suspirando en cada beso. Con los cuervos de universos apagados.

Todo es efímero. Efímero el mar, la colmena y el cántaro. Efímera la hebra de árboles sin pájaros. Efímera la vela y la noche. Efímero el cometa y el hangar de las plumas rotas. Efímero el humo y el libro de las palabras asesinas. Efímero el aliento y el suspiro. Todo es efímero frente a la risa cobarde de la muerte.

No más vestidos con barrotes. No más cadenas sin memoria iluminada. No más signos para códices sin sangre. No más vendimia. No más sortilegio de palabras muertas.

Heme aquí, con la perra que lame mis heridas. Astro sin el eco de párpados alados. Cordero sin su hostia. Heme aquí, en el navío descalzo de un profeta, en la penumbra de un violín sin alas; en el infinito de una imagen tenebrosa, con la cotidiana miseria de embotellar sonrisas.






Postulado de irreverencia

Este minuto pasa golpeando. Son exactamente las horas del desconcierto. Tiembla. Esta ciudad hiede. No puedo detenerme en esta talega de desmesuras. Mi diario personal cierra lentamente sus ojos. El tambor de las epifanías luce su exangüe listón. Una bestia se postra en la entrada al infierno. Esta barca perdió sus remos en algún lugar del mar Egeo. Ulises es una sombra imaginaria con alas rotas en el último suspiro. Yo sé que se detiene el vaivén intermitente del pecho frente a la penumbra oscura de la ceniza.





Humano. Terriblemente humano. Dueño de todos los cepos, de todos los grilletes, de todos los barrotes. Mi pasaporte tiene una herida; un puñal le cortó la identidad.

Esta sonrisa tuya, no es más que una burla que me restregás en el rostro. Este escarnio tuyo, sin tentarse el hígado porque ya lo tenés cristalizado de tanta borrachera. Este destierro no es para mí. No te conozco; pero, sé que existís. En algún lugar tenemos que encontrarnos. Te invitaré a un café, a una charla, a un verso triste. Vos vas a insistir que te acompañe. No. No pertenezco a la congregación de tus desvelos. No soy tu pan diario. Puedes irte a la hora que te convenga. Puedes celebrar las misas y los novenarios que necesités para ser excomulgada. Yo seguiré aquí, palpitando como corazón que delata su último paraje.





La noche   

La noche ladra a los perros
que cruzan la calle

Bajo un almendro
una sirena se detiene
a cantar sus exilios

Es tarde
y nada puede impedir
que los espejos se quiebren
cada vez
que un niño sueña

Mi mano se inunda
de verbos mudos
soles marchitos
e historias en ceniza

A nadie le importan mis heridas
mis padres cayeron
y en sus huesos descansan mis espejismos







La ciudad de los robles

Esta es la ciudad de los robles.  Aquí olvidaron su guitarra los grillos y en ella, nacieron ciudades y memorias.  Esta ciudad es grande.  Los muros que la protegen están construidos de huesos y sombreros.  Aquí no hay sol y llueven piedras cuando alguien quiere verlo. 

La noche se prolonga y sus racimos se pudren en nuestras vidas.  El recuerdo hiede y nos carcome.  Los pájaros mueren antes de levantarse de las cenizas.  Un río corre a unos metros y en sus cristales las figuras se detienen, beben estío y regresan a sus sombras.  Una antorcha se enciende bajo la lluvia y un rayo muere en el mismo instante que los centauros brindan por el frío en el que agoniza esta gran urbe.







El desexilio

Hay humo de ausencia

Tengo la savia del maíz
y la magia del barro

No me sorprenden las computadoras
ni los museos con huesos de cemento

Hay nuevos próceres en mi patria

El unicornio mayor de Castilla
bebe la sangre añeja de mis abuelos





II

Estoy solo en la Plaza del Sol

Cargo mi destierro
y las protestas de los jaguares

Mi pasaporte
no tiene huesos ni humedades

Nadie viste de luto
Todos siguen las huellas de sus muertos









Postulado de un oficio

Me declaro en rebeldía por el duelo de las horas. Protesto por el silencio de los verbos.  Aquí se terminaron los escupitajos.  Esta sangre bullendo; esta bandera que es mi insignia; este crepitar desde el relámpago; esta fosforescencia en pleno vuelo es flecha con la que no quiero herir a nadie. No soy el demonio ni cosa que se le parezca. Soy heredero del verbo de Cervantes.  He encendido los fusibles en las tinieblas del sobresalto.  No me considero profeta, ni amante del hormiguero.  Mi oficio es palabrear los prismas de la luz; prestar aguaceros al que desama; escupir y guardar luto.  Mi oficio es declararme en rebeldía por los aguijones del cancel donde me escondo.  Mi trabajo es transitar el laberinto de la insanidad, sabiendo que en algún planeta encontraré el eco para suicidar a los que traicionan la palabra.









Los generales

Se toman por asalto las plazas públicas y como fariseos caminan erguidos con su cetro de huesos de dinosaurio.  Piensan que pueden apagar el espíritu de nuestro aliento.  Se proclaman dueños de la palabra y sienten que un puñal les atraviesa el costado cuando la usamos.

Estos generales se equivocan cuando nos cuadriculan en sus arcaicos términos sin alma ni columna vertebral.  Ellos nunca aprendieron el secreto de este oficio.  Ellos nunca leyeron la gramática de este caminar sobre las aguas.  Nunca vieron la lumbre ni el calvario de los papeles.  Nunca penetraron en el jadear de nuestro grafito.  Estos generales se equivocan al nombrarnos y les duele ver los estigmas de nuestras sandalias.  Se les olvida que hemos pagado este crepitar desde el lamento de nuestra savia. 

No.  No somos parias.  No somos usureros.  No buscamos el fuego de Prometeo, ni el proverbio bienhechor de uno de estos retirados de la milicia.  La guerra la enfrentamos con las armas de la luz.  Nuestra insurrección tiene nombre y apellido.  Es ajenjo en nuestras venas que palpitan por el azul y los laureles.







Expediente de una desmemoria

No recuerdo mi nombre.  No.  No recuerdo su gracia, su rostro, su cuerpo, su voz y su sonrisa.  Olvidé mi nombre en algún cenicero un día de sombreros húmedos.  Olvidé mi nombre en la angustia de la edad perdida; en la aureola del niño que se perdió al bajar de la duda y del sobresalto.  Olvidé mi nombre en las huellas del aguacero.

El nombre que cargo no es mío; lo arranqué de un libro lleno de siglos que encontré tirado en el bosque de la amargura.  Este nombre pesa demasiado.  No usa mis zapatos.  No lee mis libros.  Mi ropa no es de su talla.  Tenemos costumbres distintas.

No recuerdo mi nombre y mi sombra se burla de mí a cada instante.  He dejado de ser yo, para ser otro.  Otro que yo no conozco, pero que me es conocido;  porque tiene el mismo nombre mío, usa la misma ropa mía, habla igual que mí, usa los zapatos míos y deja las mimas huellas mías. 
Soy otro y no sé si el otro, soy yo.










RITOMAR GUILLÉN [10.766]

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Ritomar Guillén 

(Juigalpa, Nicaragüa, 1985)
Escritor, filólogo e investigador literario. Estudió en la Universidad Nacional Autónoma de Nicaragua (UNAN-Managua), donde se obtuvo una Licenciatura en Filología y comunicación, en el 2010. Nació el 31 de diciembre de 1985, en Juigalpa (Chontales). Ex integrante del Grupo Literario EROS. Ha publicado en rotativos nacionales (El Nuevo Diario y La Prensa), en revistas impresas y electrónicas, y en antologías poéticas (Poesía Reunida EROS (2006), Una antología cualquiera (2007), Sandino, Orgullo de América (2009) ―comp. por Marcelo Lira y Ángela Montero, Rojo y Negro (2011) ―comp. por Luis Alberto Ambrogio). En el 2008, obtuvo el Premio a la Excelencia Cultural (Literatura) de la UNAN-MANAGUA. Participante de los Encuentros Nacionales Interuniversitarios de Poesía (2006-2009) y del Festival Internacional de Poesía Costa Rica 2009 “palabra de paz”. 

Autor del poemario, 360 grados, de una tesis sobre el poeta Carlos Martínez Rivas y de dos trabajos sobre el boxeo nicaragüense: Récords del Boxeo Nicaragüense (1915-1979) e Historia del Boxeo Amateur Nicaragüense (1936-1979), ambas investigaciones realizadas en el 2011.



 “360 grados”, el poemario de Ritomar Guillén, no es, como podría parecer, un simple balbuceo más, sino un nuevo e interesante eslabón de esa cadena de voces dialogantes que conforman la tradición poética nicaragüense.

Poemas en la mente 

“Las palabras no dichas eran la abstracción
de un diálogo consigo mismo.
Asumió el control del guión
y cada palabra debía decir
lo que no pudiera esperar y rebatir el otro
en su parlamento; cada palabra exponía
un atributo de ingenio y locuacidad del Explorador.
Distintas retóricas que se purgaban
en la cautela del argumento…”





Enunciación de vida                                     
      
Por mucho que tratemos de alargar la ruta,
el tránsito de una etapa a otra,
lentamente, entre comas, irá avanzando.

Por mucho que demos énfasis “entre comillas”
a un momento más que a otro ( ese que nunca quisimos
                                                      haber escrito o explicado)
iremos avanzando.

Aunque en el recorrido caminemos,
buscando un pretexto para retrasar
– lo que ya es evidente, curso en decadencia;
                                               enunciado casi acabado
                                                        de  expresión
                                                                y sentido
                                                                                lógico:
iremos avanzando…

Por mucho que nos esforcemos,
llegará un punto final a nuestro recorrido. 







POEMAS EN LA MENTE

Conversación

Al aire palabras
que las copia nadie

pero que aman ser dictadas,
libertad del pensamiento.

Guijarros, al fin materia suelta,
roca o lenguaje soluble
de la Gruta; una sopa de letras

desde la Caverna larigítica gotea…
dos Parientes desatan a sus fantasmas,
mientras cincela en la cadena el viejo Manzano
un toque de queda:

Yacimiento o brotar sonoro:
esta manía de recitarse en voz alta Uno mismo.







3

Complot en la mente

Algo corrompe al cerebro.
La juventud se degenera
en un Estado sospechoso;
crece el temor y la angustia
cuando la percepción
se confabula con la apariencia.

Las suposiciones engendran intrigas,
eficaces para lamentar
lo que no se ha perdido.
La piel no madura
los sentimientos de vejez,
sino que algo manipula y desconoce
al cerebro de su sitio idóneo.
El complot en la mente
por la misma mente por donde está.
El juego de la mente
asume un doble rol.







Solidaridad líquida

Ese líquido que todavía corre y descansa,
en ríos, lagos y lagunas,
algún día se bifurcó del Éufrates
y se vino por el Edén hacia estas tierras
a fructificar árboles y cosechas.

Ese líquido que hoy te bebes,
no es agua,
es recuerdo de agua:
Fantasmagoría que pocos creemos ver venir
en las otroras aguas dulces de la tierra,
en las aguas turbias y fétidas de la tierra,
en las alcantarillas de las urbes hacia los bosques de la tierra:
la mayoría de los hombres,
como si tragaran agua del Leteo,
no saben hacia dónde van las pocas aguas limpias
que nos quedan,
no saben distinguir lo transparente e insípido
de lo coloro y hediondo de estas aguas
que nos quedan.

Hermano
ese líquido, que te sustenta como agua,
es la fotocopia más vendida de la tierra…
Pero ¿qué puedo hacer para que no la consumas
ese residuo de inventos humanos,
como ese árbol que se corta todos los días en cada parcela?
¿Qué puedo…?
Si ese líquido que hoy te bebes
no sabes qué es –lo ignoras por naturaleza–
porque sólo buscas como saciar tus necesidades,
tu sed, hermano animal.



LEÓN CARTAGENA [10.767]

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León Cartagena 

(Los Mochis, Sinaloa, MÉXICO  1978) Poeta y  artista gráfico. Ha publicado en revistas, periódicos y suplementos en el estado de Sinaloa. Sus poemas han aparecido en las antologías Antología de El dorado (La fiesta de los faunos, 2002), Permanencia del relámpago (Praxis, 2008) y Canto a la sombra del venado muerto (Colección Palabras del Humaya, 2012). En 2002 fue reconocido con el Premio Nacional de Poesía de la Universidad Autónoma Indígena de México (UAIM). Ha impartido en talleres de creación y formación literaria en los estados de Sonora y Sinaloa, se ha desempeñado como promotor de círculos de expresión literaria para Save the Children y UNICEF.







Del Monte y otras Bestias


Danza de venado

A René Higuera

La luz penetra en el centro de los girasoles,
a esa hora el monte mantiene atadas a las bestias,
erguidas y delirantes elevan sus dedos coronados
con los frutos rojos hacia el cielo.El venado colablanca se levanta,
suavemente va pisando
escollos de rocío,
levanta su cabeza y el cuerpo sigue el movimiento.
La luz hace platear el paloblanco,
el venado sabe que anda solo,
mueve la cabeza hacia los lados,
sus cuernos apenas tienen puntas pero busca hembra.
Aparece un poco de verdor en la llanura,
las aves describen en su trino
la geométrica migración de su bandada.

El venado se deja guiar por el sonido
de una vena de agua que viaja entre huizaches,
una sombra se esconde tras las ramas,
lleva consigo una muerte de madera.

Sabe en su soledad el colablanca,
que no llegará a beber del río y que no verá hembra,
sabe que morirá
de sed y de madera.








Golpe áureo
¡Ah!,
luz,
arde,
rómpeme
en tu silencio;
con geométrico mazo
traza la grieta afilada de un dolor nuevo.
Adivino tu gesto, la perfección del golpe seco que no se da.









Panum


I

El sátiro probó el veneno
en los suaves labios de su flauta,
del carrizo saltaban chispazos
y brotaron cirios del suelo.

Marsias hizo nacer el monte en su elegía:
no era música, era luz bailando por el aire,
gotas de calor que resonaban al romperse
para que dios se reconociera en su ira.

Asalto de la fiebre,
génesis de suelo árido y espinas,
ebrio de musas gritó su pugna,
hiriendo al Olimpo en un costado.

Una vez lanzada la piedra de la osadía,
como salida de la onda de David,
Marsias había instalado una cicatriz
en la armadura de todos los dioses.



II

Se posaron los pies de dios
sobre las flores y quemaron todo,
nacieron remolinos en el cielo,
y con su lira clamó su némesis.

Los heráldicos cirios verdes se espinaron,
se coronaron solos con rubíes,
rechazaron el agua y sus dones,
olvidaron los colores, se exiliaron.

Dios arrancó las verdes frondas,
las manadas de bestias mansas y educadas,
se llevó todo dejando la tierra seca
y condenó al monte a un infierno implacable.



III

Dios, magullado,
dio vuelta a la lira y con su cólera
entonó una sinfonía de tormentas,
volvió tierra las piedras y secó los ríos.

Marsias no pudo girar el carrizo;
dios había cobrado venganza:
colgaron al sátiro de la rama de un mezquite,
le arrancaron la piel y de su sangre nació un río.

Hybris, abolladura en la armadura de dios,
padre del poeta que hace nacer cosas vivas
en las hojas blancas, creador extinto,
relámpago, música de astros, racimo de alacranes.

Sobresaliste demasiado,
te fulminó la lira, el silencio de tus amadas,
de la cascada sonora de tu sangre
creció el agreste monte que aún te espera.

Venado, coralillo, palo verde,
no hay constelaciones en el cielo para honrarte,
pero al andar por el monte,
el ritmo de tu flauta ruboriza las pitahayas.





LEÓN CARTAGENA
DEL LIBRO
LAS VOCES DEL RELÁMPAGO.


“Poeta es aquel
que en lugar de corazón
lleva un perro enloquecido”.


Prefacio.

“Si pudiéramos definir la poesía de León, debiéramos simplemente concluir que habita en ella un telescopio. Un telescopio con los cristales al revés, de modo que cuando se mira la profundidad del universo, asimismo se descubre la hondura del ojo.

Esta simple, pero singular (significativa) anomalía óptica, hace de León un poeta claro, honesto, en su preclaro intento de conquistar el silencio.

La poesía de León, lejos de todo artilugio intelectual y artificio técnico, se aproxima más bien a la transparencia de la vertiente que corre subterránea y brota sencillamente donde a su claridad le place. No digo, no digo, que su poesía carezca de la complejidad lingüística prudente, necesaria en el oficio de la creación literaria. Hablo de la transparencia inherente a lo natural, lo sencillo (que nunca es fácil), de la desnudez al nacer, de la desnudez al amar. León sabe que la poesía, la de verdad, no tolera las máscaras. Las máscaras son para los poetas que no saben escribir con el corazón…

En estas voces del relámpago, el dolor, el amor, el erotismo, el ser, si bien sombras, si bien luces, se nos aparecen y nos hablan con el lenguaje contundente de la simpleza del hombre que aún se da el tiempo para leer el otro poema, el que escriben el mar, la tierra, los cuerpos que son el cuerpo de los amantes y entre el mar, la tierra y el cuerpo de los amantes, León es el puente por donde vamos nosotros a su encuentro…” Quique Silva. Poeta Chileno. Coronel, Región del Bío Bío, Chile.




XII

Solo un hombre puede sembrar una palabra,
una semilla de lumbre,
que detenga o cambie el curso del tiempo.
Todo parte de una página en blanco,
se hacen elevar olas, se tiñe el silencio.
Desde la nube baja un dardo luminoso,
dobla las costillas de la tierra
que tiene dolor de parto, de poeta.
Un hombre sólo,
puede ver que las estrellas son coágulos
sujetos a la costura fugaz de la máquina celeste.



XV

Entre la cara y el espejo
cuántos abismos de eternidad.
Cuánto miedo con ritmo se dibuja
en el lago vertical adormecido.
La violencia azul atraviesa la ventana,
duplicada se imprime en las paredes.
Entre la cara y el espejo se conoce el silencio,
sellado con cascada luminosa del relámpago.



XVIII

Tengo días donde no me encuentro,
me le escondo a los espejos, a los ojos,
días donde me pierdo de mí.
Intento ser discreto,
no provocar la idea de un secuestro,
simplemente hay días en los que soy
una página en blanco.
Hay días así,
donde no puedo llegar al ocaso
sin que un relámpago me alcance.



XXI

Siento la vida como un largo exilio interior,
un lugar entre las costillas y la ausencia,
algunas veces me doy tiempo de escuchar
el murmullo del viento.
Procuro alejarme de los libros,
de las prisiones al aire libre de los hombres,
en mi jaula de mineral blanco me alejo de los fantasmas.
Me gusta estar fuera de la vista de la fábrica,
de los automóviles que no tienen destino propio,
lejos de las sonrisas ensayadas.
Siento la vida como un largo exilio interior,
un lugar entre las costillas y tu ausencia,
busco entre las palabras un impulso para renacer,
sin que mi rugido deje de dar luz a las estrellas.


JUAN CARLOS GARZÓN [10.768]

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Juan Carlos Garzón 

(Distrito Federal, MÉXICO  1986) 
Es licenciado en Filosofía por la UNAM, donde actualmente estudia la maestría. Trabaja como guionista de televisión, y publica poesía periódicamente en Revista Síncope, en Dixo, en Letras Explícitas y en su blog personal www.ahilesvaunsoneto.com. Ha publicado también en Etcétera, Punto de Partida, Mil Mesetas, Letralia, Radiador, Garuyo, Y los rinocerontes bostezan y Replicante. Ganó una mención honorífica en el concurso 39º de Punto de partida. Miembro fundador del colectivo de comedia Santo Puerco A&R (www.youtube.com/santopuerco).





El Sonetero: La gran molécula 


No existe la injusticia en la molécula.
Un tierno sueño en blanco, un Sí macizo,
metra su vaivén con pulso firme y nada
queda a medio hacerse.
No existe ni un huequito entre dos átomos
en que vibren las gangrenas del deseo.
El oxígeno del agua no pregunta:
¿por qué soy uno yo y dos los hidrógenos?
Se enlaza sin ceder, sin sed de nada.
Mejor dicho, no se enlaza: todo es lazo.
Cinto circular que danza embelesado y todo es todo.

¿Y no es el universo una molécula?
¿La Gran Molécula y su tierno sueño en blanco?
Beatífica, obediente de su plena ley sin baches –
ley que no es distinta de sus cuerpos súbditos.
Tal vez es la injusticia un espejismo
de estas lóbregas, parciales ventanitas
que dicen Yo y que quieren por el Yo
y que odian por el Yo y que por el Yo se extrañan.
Que sólo ven la horrenda, rota parte,
y no sus matrimonios omnigámicos.
Tal vez el mal se dice perspectiva.

Pero este terso, esférico argumento trae también su grieta:
y es que sí existen los Yos en esta Gran Molécula.
Que parte de este todo son las partes,
que en el seno de lo lleno están las nadas.
Que esta sabia plenitud le abrió lugar a la desgracia,
le hizo huecos a la ciencia y la ignorancia,
y sólo el Yo puede decir justo e injusto.
Tal vez es la injusticia el alma de la suma de los mundos
y filtra su veneno en gradaciones descendentes
hasta el enfermo, triste, anárquico electrón
que tiende a la entropía y maldice el orden.






Lo que viene

Lo que viene no vendrá como un gorrión
que se deje ver venir a la distancia
puntual en el centro del aire y haciendo un escándalo

no se parece a un barco
con sus bultos patentes sobre el lomo
rectilíneo cuando embona en una rada

lo que viene no es una palabra
que está callada y callada y callada y se dice de pronto

no es un signo que desciende como un copo
desde un almacén celeste
para tatuarse en la piel de los objetos
y cambiarlos por otros con una alquimia súbita

tampoco es una fina membranita
como la lluvia mustia y sus vapores
que se atraviesa con los hombros tensos
y que divide el aún no del ya por fin

no es un vaso que se derrama
por la gota que derrama el vaso
ni es la gota

tampoco es un punto crucial de ebullición
que está pendiente de un grado que no llega
pato pato pato pato oca
no es leche a la espera del descuido
para hacer en la estufa un cochinero

lo que viene no es el casco de una sílaba
no empieza con la letra f
que delimita las hectáreas del presente

lo que viene
esa vejez implausible
esa guerra civil que está tardándose
ese cáncer de pulmón con sus postales
el final de ese amor de cuatro letras
el derrumbe de los usos y las modas
el revés de las cosas de este mundo
lo que viene
lo que viene ya empezó
es justo esto que está pasando ahorita.







Soneto del volado

¿Por qué, si la razón con que se hace
exige otra razón? ¿Y así? ¿Y a ultranza?
¿Por qué, si este motivo no me alcanza,
y nunca puedo ver en dónde nace?

¿Por qué, si puede ser que el desenlace
sea atroz? ¿Por qué, si tal vez con mi lanza
mate a Layo, y mi lote en la balanza
va a ser de polvo, pase lo que pase?

Calculo, austero, y cuento mis respuestas -
tintinan en mi mano todas juntas.
Pero son infinitas las preguntas.

Se devoran las sumas y las restas
y queda el cero, que es pregunta, y queda
mi mano en quiebra. Lanzo una moneda.






[Esto ya no tarda en estallar]

Esto ya no tarda en estallar, dijo
con el aire en paz y con los ojos fijos
en un roto renglón de la Jornada
vimos las señales y no hicimos nada
la garganta se le enreda de un rencor que le gusta sentir pues
no hay cosa más dulce que saberse previsor tras los desastres
no existe una palabra que te vaya a preparar para esto, y es
que un coagulado tremor germina en el fusil de los gendarmes
y qué cosa es ésta que debimos de haber hecho desde antes
si es el tiempo solo quien convierte las señales en señales

y luego dijo que

México es un país de analfabetos
y quién lee si los signos no se están quietos
nos adoctrinan con la tele, dice
y no sé si me reí o si sólo quise
y algo tiembla y algo crepita y algo
se repudre en el subsuelo cuando salgo
a la calle que grita hasta en sus bardas
que esto está por estallar, que ya no tarda
y hay algo que tienen de idénticas todas las generaciones
la ilusión de ser únicas por ya conocer los desenlaces
de que el presente es el after de la Historia y que todo por fin es
un relato consumado y que al fin ha fijado sus lugares
hay armas largas donde no había dinero ni para frijoles
pronto no tendrá sentido hablar ni de versiones oficiales

y luego dijo que

es ésta la señal y es éste el ruido
y va a hincarse el jodedor ante el jodido
si acaso nosotros estamos del lado de los jodedores
leer la Jornada no va a hacer que te perdonen tus deslices
que este ciclo se acaba y que la gente
pronto va a afirmarse hegelianamente
pero el mal no garantiza que las cosas puedan ser mejores
ser ‘justicia’ una palabra no la incluye en las cosas posibles
que esto no tarda en estallar, insiste
y lo alumbra como un fuego pero triste
y habla y habla y habla lo que quieras de las cosas previsibles
seguiremos hablando cuando el mundo se salga de sus goznes
y entre que si dialoga o monologa
juzga sabio no hablar ya y me vende drogas.







La cama y el tiempo

Qué bueno que tengo una cama y que no soy un nómada.
Qué bueno que ignoro qué cosa es el tiempo,
que pienso que es el curso de las cosas.
Creo que ha sido un día lo que recién pasó
porque empezó en la cama y terminó en la cama.
Y entre esos dos momentos fui al trabajo y ocupé una silla,
y después utilicé mi tiempo libre
para ocupar otros lugares con mi nombre.
Voy a su encuentro y les suplico que me digan esto eres,
alguien que hace esto y que hace aquello,
que come en una mesa y que usa ropa,
que dice estas palabras y que duerme en una cama,
en esta cama.
Y vuelvo al final a esta cama.
Y cierro los ojos, me interrumpo.
Una piedra da una vuelta frente a un astro grande,
y por ende pienso
que con esto recomienzo.
Y vuelvo al mundo:
un mundo que está lleno de nichitos
moldeados con la forma de mi cuerpo
moldeado con la forma de los nichos.
Igual que mi cama.

Qué bueno que tengo una cama y que no soy un nómada,
qué bueno que ignoro qué cosa es el tiempo.
El nómada no tiene cama: tiene camino.
El nómada, el sin cama, duerme al margen del camino
y despierta al margen del camino
y se levanta a continuar su recorrido.
Lugares siempre cambiantes, siempre nuevos,
lugares que no son lugares sino caminos,
como él mismo no es lugar sino camino,
línea que se extiende sin comienzos ni finales,
sin interrupciones y sin recurrencias,
sin nichos que la inviten ni la acojan
y con todas las posibles desviaciones.
Sólo puede el nómada saber
que todos somos nómadas.
Sólo puede el nómada saber
qué cosa es el tiempo:
es él mismo.
Y éste es un saber que sólo puede
llenar de pesadillas una cama.
Qué bueno que tengo una cama y que no soy un nómada.







Soneto de Pablo

“…Festo dijo a grandes voces: ¡Estás loco, Pablo!
Las muchas letras te han vuelto loco.”
Hechos, 26:24


Las letras, Pablo, al fin te han vuelto loco.
Las grámmata tornáronte a manía.
Hablas de un lógos que no moriría
ni con todas las muertes. ¿Me equivoco?

Pero perdiste el lógos poco a poco:
le diste la razón a la graphía.
Si vida eterna escrita es biología,
yo sólo soy lector de lo que toco.

Les rindes a las grámmata tu lógos
buscando sempiternos desahogos:
ya no puedes cerrar las puertas que abras.

¿Creíste la promesa de las letras?
¿De verdad crees que en ellas te perpetras?
Las letras te han dejado sin palabras.







[Cállate]

Cállate
me voy a callar yo también y que todos se callen
que esté callado el treno tonto de los que se explican
y que el mórbido frufrú de las mentiras se calle y se calle
también el tintineo de las anécdotas que suena
como golpecitos en cantimploras huecas
y que se calle en la calle el sonoro peatón con manos libres
y que los tiernos amorosos ya se callen sus boquitas
y que se callen las pláticas a medio ya supiste
y que ése que está por decir algo muy sabio no lo digo
y que el padre reparta las hostias pasada media hora de silencio
y que sigan su ejemplo sapientísimo sus fieles
y que se calle aquél que está elogiando a un perro
y que el que tiene un secreto que lo oprime se lo calle
y que se calle el que acusa
y que se calle el que se excusa
y todo aquello cuyo ruido sean palabras
y que se quede callado el planeta
como piedra que no sabe hablar y que flota y que flota

Sí, que todo esté callado
y ya me callo
escucha:


Pero es inútil
ni así se calla el mundo
lo pusimos a hablar y no se calla
le dimos cuerda y con su cuerda
se vuelve a dar cuerda él solito
trae las letras tatuadas a lo largo de su tiesa piel
y las trae hasta en los dientes y en el hueso
ya dimos con la forma de escribir hasta el silencio
el naufragio genocida de los libros
y sangra el graffitti en las muertas paredes
y pantallas gigantes en calles con nadie
repiten lo que algún día pronunciamos
espectaculares como graves oleos
de los muertos ancestros de un muerto
y cartas y etiquetas y volantes en el suelo
palabras ya vueltas carroña parlante
y la playlist en repeat sigue sus ciclos
y youtube sigue contando sus anécdotas
el mundo va seguir hablando cuando ya no estemos
va hablar de nuestro lóbrego episodio entre las eras
va a seguir hablando solo como un loco
sin gramática ni idioma
como un coche después de un atroz accidente
garabato de hierros torcidos y rojo entre el polvo de los vidrios
con su estéreo que insiste imbécilmente en reiterar
que Johnny, la gente está muy loca o una densa reflexión
de Toño Esquinca acerca de la culpa y el perdón
en medio de trizas en llamas y de un amasijo de carne
sin nadie que viva ni escuche ni perdone ni sea Johnny
y el estéreo no se calla
ya no dice nada
pero no se calla.






ANA MARÍA VÁZQUEZ SALGADO [10.769]

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Ana María Vázquez Salgado 

Tulancingo, Hgo., MÉXICO    1969. Ha publicado el libro de poemas El penúltimo Astrolabio (2010) Premio Efrén Rebolledo 2009, el libro de cuentos Como nacer del fuego (2006), Escritura creativa: Antología de poetas tulancinguenses (2010). Beneficiaria del Estímulo a la Creación Artística y Cultural, emisión 2005 y 2007 del Fondo Estatal para la Cultura y las Artes de Hidalgo FOECAH. Coordinadora de talleres de Creación Literaria para niños y adultos.





I

Esta noche
sola
en silencio
me voy juntando entre mis ruinas
argamasa piel cubre mis huesos
y nada entiendo de mañanas



II

Quiero dejar mi voz acodada en la ventana
saltar al vacío
y en silente vuelo surcar la oscuridad



III

En este mar de sombras
qué lámparas quedan encendidas



IV

El día me pone su mordaza de luz
camino pensando en nada
escucho el tañer del reloj
cruzo la calle
me descubro.





Coluro

II

La tarde se precipita sorda y gris
una gota cae y revienta sobre mí
estatua que se derrumba  junto a los sueños
convertida en niebla.

Todo comenzó con la lluvia  proclamando el final de mi preñez
en que con cuánto gozo te vi brotar maíz sangre mariposa.
Sin lágrimas surcamos las primeras palabras de mar y viento
crisálida anidada en nuestros nombres.

Investida con designios de pasado y jirones de tu sombra
palabra a palabra
fui tejiendo alas
para que la voz fuera
risa palpable y olorosa
espíritu y ojos
bálsamo y herida
vuelo de palomas
danza de cortejo
espejo imperturbable
huella en el tiempo
aguacero acallando la nostalgia.

Soy quien habita tu sangre
y no quiero mirar cómo te desvaneces
cómo la lluvia me inunda en lamentos al verte partir
avasallado por un sueño de cúmulos y estratos.

Estás aquí comején en la memoria
rasgas implacable la noche en vigilia
te acuno con cantos
con lluvia
con aullidos.

Te seguí en el exilio dejando atrás el fuego, la ceniza
fue páramo y espina el templo en que nos refugiamos
con los ojos colmados de huellas miramos las paredes
bebimos del silencio un licor de amnesia y lejanía.
Fue julio y la hora feroz de la huida

Pero debía volver
contemplar desde la ruina el añil de un cielo cansado de mirarnos
la desnudez de la roca, la herida que los días hicieron a tu casa
pero debía volver
y extraviar el colibrí que forjamos.

Desde tu sangre, desde mi sangre
alzaste la voz para abjurar de nuestro vuelo
del hambre de beber el mar y llenarnos los ojos de horizonte.

Escuché el eco de tu llanto
los gritos con que negabas la palabra
como oigo la lluvia golpeado la ventana.

Mírame
aquí estoy
con alas de lechuza atravesando el tiempo y el asombro.

Mírame
aquí estoy
cazando tu imagen en mi espejo.


El penúltimo Astrolabio, CECULTAH 2010




Te miro como se ven partir los barcos.
Hay tantas palabras que se detienen al borde de mi boca
cuando mis ojos se llenan de sal y de distancia
desde la calle el silencio musgo tapia las ventanas
y tus pasos dibujan la soledad que seguiré mañana

No arribarás a mi playa, ni rondarás mis sueños
no vendrás para habitar mi gruta oceánica
ni te irás satisfecho pensando que has ganado la partida.
Soy tormenta avivada de nostalgia

A la sombra del naufragio
acuno tu recuerdo
mi voz es oleaje arrullo de quimeras
mi cuerpo embravecida ola que rompe y se desgaja
en el último trecho de tu ausencia.





De su libro Como nacer del fuego, proyecto beneficiado por el FOECAH 
  
  
 
Atardecer
epitafio del día
abre laberinto
  de silencios. 
  
 



 
Tu silencio

  Océano 
en el que naufragan mis palabras

  Espejo polvoriento 
  reflejo de tu ausencia 
pasado que invento
  para no perderme en tus abismos 
  Lámpara encendida 
las horas quietas de mis días

  Insecto 
  que ronda en mi cabeza. 


XITLALLY RIVERO ROMERO [10.770]

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Xitlally Rivero Romero 

(Tizayuca, Hidalgo, MÉXICO   1985) se graduó con honores de la licenciatura en Letras Españolas por el Tecnológico de Monterrey. Fue Coordinadora de la Fábrica Literaria, donde impartió talleres de creación literaria para niños y adolescentes. Es autora de De mareas y otros versos (ALPHA Editores, 2007), Matilda (Editorial Acero, 2008) y Hormiguero (UANL, 2012). Cuentos y poemas de su autoría han sido publicados en diversas revistas y periódicos de Hidalgo y Nuevo León. Su poesía está incluída en: El Sueño y el Sol, Poetas jóvenes de Nuevo León nacidos entre 1985-1993 (Ediciones Itempestivas, Monterrey, 2011), Del silencio hacia la luz. Mapa Poético de México (Ediciones Zur Catarsis Literaria El Drenaje. Yucatán, 2008), Bitácora de voces: Verso Norte (Posdata Ediciones y UANL, 2008 y 2012) y Carne pa’llevar (Rojo3es Editores. Monterrey, 2010). En 2003 recibió el premio de Literatura Instantánea “A vuelo de pájaro” organizado por el gobierno de Nuevo León. Actualmente coordina la dirección editorial del Grupo Fractal Editores y dirige el sello Acero de novela contemporánea.




de mareas y otros versos


Poesía. Un poeta me dijo alguna vez que hay tres aspectos indispensables si se quiere abordar la profesión de escritor: leer, vivir y escribir. Un músico me dijo alguna vez que el arte no es arte hasta que se muestra.





Los soldados

Hace frío.
Llego a la universidad y me detienen.
Moños negros.
Pero no lloro ni retrocedo.
No retrocedo.
Las puertas de mi universidad.
Moños negros.
No retrocedo.
–Buenos días.
–Buenos.
–Buenos días.
Pero no lloro ni retrocedo.
No retrocedo.
–Buenos días.
–¿Cómo estás?
–Bien. Muchas gracias. ¿Y tú?
–Muy bien. Gracias.
Gracias.
–Qué gusto verte.
Qué gusto.
Bandera a media asta.
Buenos días.
Qué gusto verte.
Qué gusto.
Ramón y un chico de arquitectura están en esa esquina. Fumando.
Ramón dice:
–Dla, Dle, Dlu. Dludl dla.
Y ambos empiezan a hablar: dla, dle, dlu, dludl dla.
Sergio suelta a Mou y mira a Ramón.
–¿Alguien habla japonés?
Pero no retrocedo.
Es medio día.
Y pudo ser cualquiera.
Con los pies fríos, subo las escaleras de Aulas Dos.
Con los pies fríos.
Si algo conservo de mi tierra, es eso. Me gusta la comida bien caliente.
A menos, claro, que el plato que se sirva sea frío.
Me hubiera traído las botas grises.
Pero eso de que te sirvan unos tamales que prometen mucho en su vapor, y con el primer bocado se mezcle un algo tibio con algo húmedo de tan frío nomás no.
Nomás no.
Serrano no ha llegado y espero frente a su puerta.
Por eso comprendo muy bien cuando Tanya entra al pasillo que da a la oficina del doctor Serrano, se detiene frente a mí y dice:
–Quiero un café bien caliente.
–Pero que esté bien caliente –empuño y marco.
–Sí –dice Tanya–. Bien caliente.
–¿Cómo estás?
–Por favor ábreme.
Salgo del edificio.
Tengo frío.
Y pudo ser cualquiera.
Cristal enciende una veladora.
Y otra.
–Afuera hay tantas cosas –me dice–. Tantas.
Pero ya se acerca la boda de Rodolfo y allá vamos.
A Tampico.
Es de noche.
Llegamos.
Bajamos del auto y, como en Oaxaca, hemos llegado al hotel con el nombre que nos anotó Carlos pero la reservación se hizo en otro sitio.
El teléfono que nos dieron es de otro hotel.
En fin, me dices. Prefieres quedarte aquí. Ya lo conocemos y, además, ya es de noche.
Es el mismo hotel donde nos quedamos para la otra boda, ¿te acuerdas?
Hay tantas cosas.
Tantas.
Pues aquí nos quedamos.
Nos quedamos.
Nos dan una habitación en el primer piso, a la altura de la recepción. Pero está muy bien porque desde la ventana puedo ver el Zócalo Capitalino.
Y me encanta la vista. Madres con las manos en niños y bolsas repletas, hombres de traje rumbo a la oficina, vendedores, el tránsito, turista en pantaloncillos como si no hiciera frío.
Hace frío, ya me doy cuenta, y toso.
Y todavía tengo los pies fríos.
Y ahora las manos, la nariz.
Y el turista en pantaloncillos.
Traigo una toalla en la cabeza, para que se me seque el cabello, y ropa cómoda.
Miro el Zócalo.
Paty y Dulce vienen por esa esquina.
Suena un tiro.
Todos al piso.
– Ante el menor ruido –te digo–.
Pero no me escuchas, estás en el baño.
–Ante el menor ruido.
La gente se percata de la falsa alarma y se levanta. También se levantan Dulce y Patricia. Vuelven a su conversación y siguen.
Atrás viene Selene.
La saludo.
Ella alza un poco los ojos y asiente, no muy convencida.
Me quedo pensando si ella pensará que soy una presuntuosa.
En eso me doy cuenta de que allá viene un camión lleno de militares.
Y el sonido de un helicóptero.
Que aterriza en el Zócalo.
Cerca del hotel.
Los militares.
El camión se detiene también frente al hotel y los soldados bajan. Unos se pierden a mi derecha y otros van a la izquierda. Parece que van a entrar.
Estarán buscando a alguien.
Otros más se colocan en el Zócalo, mirando al hotel. Así que me oculto tras un sillón para cubrirme. En ese momento sales del baño y te digo que te tires al piso.
Los que están afuera pueden estar dentro en cualquier momento.
Un soldado se coloca frente a nuestra ventana y te apunta.
Pongo las manos en alto para que tú lo hagas.
Pero no lo haces.
Un tipo se me acerca y le digo que piense con calma las cosas, que a lo mejor le somos útiles, y él me lanza un puñetazo en la cara que me lleva al piso.
Pero no lloro ni retrocedo.
Veo cómo te someten los soldados y te llevan fuera del cuarto.
Ojos afuera de sus cuencas.
Uñas crispadas.
Piel reseca.
No se lo lleven.
No, por favor, no se lo lleven.
No nos separen.
Necesito verlo. Necesito verlo.
Sillón rojo.
Paredes marrón.
Uñas crispadas.
Necesito verlo.
Cortinas blancas.
Sillón rojo, cojín grisáceo.
Necesito verlo.
Entra otro grupo de soldados.
Piel reseca.
Pero necesito verlo.
Un soldado del nuevo grupo se adelanta un paso, apunta y dispara contra mi agresor y, antes de que termine de pensar que quizá vienen a salvarnos, me dispara entre los ojos y me lleva al piso.
Ábreme.
Por favor, ábreme.






Hombre rodeado de silencio

Puedo sentir el silencio
que rodea tus pasos cuando llegas,
cuando bajas del carro
y cuando abres mi puerta.
Te rodea el silencio, amado.
Puedo sentirlo.
Y yo prefiero tu silencio.
Prefiero tu silencio que se rompe en fisuras deliciosas que no ocultas,
que no temes.
Te acompaña el silencio, amado,
puedo sentirlo.
Y yo prefiero tu silencio.






Los nombres


I

Te llamé mar,
pero tus límites se hicieron inhóspitos y, siendo ola, me ahogaba.
Te llamé río,
Pero tu juguetona inconstancia me quebró entre rocas
y terminé confusa.
Te llamé arena,
y por buscarte me hice a la orilla hasta secarme.
Pero no bastó.


II

Mar extendido a cuestas
en la marea taciturna y vespertina.
Río sin nombre, escurridizo, que llora a veces.
Arena...
y, por buscarte, me hice a la orilla
hasta secarme.
Pero no basta.


III

Hoy te llamo desierto
(alguna vez fuiste mar, dices)
y te llamo ráfaga,
torbellino, borrasca
(¿cómo llegarías hasta mí?
¿cómo llegaste?).
Pero ninguno basta.





Una voz

Una voz.
Un eco.
Un chillido insistente que tiembla e insiste.
Una fragilidad hiere en las uñas y no estalla
estando ahí.
Una voz,
un eco
que desnuda.
Y una lágrima rasga
me adelgaza
me consume
agota el aire.
Una voz.
Un ojo un ojo un ojo
Un ojo un ojo tantos ojos.
No se puede llorar una culpa aprendida
desde el encierro
y la negación,
desmentidos ambos.
Por eso el frío de mis brazos que te llama,
por eso la ingenua humedad absorbida en tus labios,
el temblor de mis dedos en tus manos
la ansiedad recurrente y vespertina.
Una voz.
Un eco.
Un zumbido incitante que tiembla e insiste.
Dos ojos: tus ojos.
Hace frío esta noche que se cierra en tus brazos.







Un pretexto

De un párpado colgado en cualquier parte
se desprende una imagen que me llama,
que me agolpa a la entrada de una noche
y se cuela en el dolor que hay en mi espalda.
De ese cosquilleo que da la búsqueda,
que apabulla ante la idea del viaje,
se desprende un no sé que da la llama
y me atisba a no ceder.
Pero el vaivén abruma,
a veces, sólo a veces,
a voces insistentes
a golpes imprecisos
a sorbos diminutos,
y retorna la imagen de mi párpado
colgado en cualquier parte
que da espacio al respiro acompasado
de risa escurridiza en el silencio.






Declaración de amor a un hombre


A mi hombre

Yo no podré decirte, niña,
de tus cabellos amarrados a mis manos
de la grandeza de tus ojos en mis ojos,
de la dulzura de tus manos en mis manos.

Yo no podré decirte, niña, de tus labios
el calor de los besos que no has dado,
el fulgor de caricias que prometes,
el caudal que se pierde en tu cintura.

Y no podré cantarte, niña, en mis excesos
la tibieza de tus senos por las tardes,
la insondable oscuridad de tus abrazos,
la ternura exquisita de tu sexo.

Amado:
te descubro infinito en el orgasmo.
Anúlame tú en el espacio de tus manos,
anúlame tú, el de delicias imposibles,
anúlame tú, el de temblores absolutos,
descárgame en ti al filo de mi grito,
grito de ti y tu nombre en la demencia
de tenerte en mi boca y abrirme en tu regazo.

Amado,
agota el giro.
Te abro la puerta:






Los desaparecidos

Eran muchos rostros incrustadados,
y era un olor cenizo y agrietante.
Yo me senté en medio:
Una mujer callosa, labios rotos.
Un hombre, sus esposas y el custodio.
Eran muchos rostros incrustados.
No recuerdo ninguno.
Los miré uno a uno.
Uno a uno.
Pero el olor era cenizo y agrietante.
Y ya no recuerdo ninguno.







De la llaga (Sonetos lúdicos, 2006)

Este viento del mar que me conduce
por ánimos ignotos del deseo
es un cristal que apenas se trasluce
en cada amanecer que no te veo.
Esta marea del viento que no luce,
opacada por un apenas creo,
es un caudal varado en pleno cruce
de ajeno imaginar grato esperpento;
un cálido reflejo apasionado,
fuerza imposible que me niega el hado
que hará estallar regiones ignoradas.
Y acaso por las noches te imagines
una marea en los brazos que te imprime
vientos de mi quimérica alborada.






Soy heredera del huapango

Soy heredera del huapango
de la lluvia de lagartijas.
Nací en el son del viento que llora la plata 
entre empedradas y cerros.
Mi voz
falsete
guitarra barroca
sueños bordados al cuello y a los pies.
Me arrullaba el pespunteo
en noches frías que abrían conejos
Agua miel
flor de campo
nostalgias de un pastor y cantos rojos
pintados de octosílabos que hablan 
de manos curtidas por el sol
polvo de minas y atlantes anónimos.








Se abre, en el cielo

Se abre, en el cielo,
esta ciudad que inunda,
este caminar de pasos en la orilla,
esta dádiva limpia de caramelos y arrullos.
Se abre, en el cielo,
esta ciudad que inunda,
que desquebraja, que aglutina,
que desparrama hasta el hastío del perro
que se va
a otra habitación
a mirar las aspas.
Se abre, en el aire,
esta humedad deprisa,
este anhelo brillante de moldura
que se queda en ascuas y amenaza,
rutilante,
hacia el paso de abril.







DANIELA FLORES [10.771]

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DANIELA FLORES

Nació en el estado de Hidalgo, MÉXICO  en el año de 1983. Poeta, narradora, ensayista y editora. Periodista egresada de la Facultad de Ciencias Políticas y Sociales de la UNAM. Es editora y miembro fundador de la Editorial Patético y del grupo cultural Colectivo Entrópico.
Es autora del poemario Plegaria a un cuerpo, Editorial Patético, 2013. Parte de su obra se encuentra en las antologías: Memorias del 9 Festival Latinoamericano de Poesía 2013, Tintanueva Ediciones, Ayuntamiento de Nezahualcóyotl, 2013 en el marco del 50 aniversario de creación de la ciudad; Un claro en la ciudad, Colectivo Entrópico, 2013, Poemas al viento, La Cabra Ediciones, 2008, entre otras.

Se ha desempeñado como reportera en Notimex y en otras publicaciones a nivel nacional. Su labor como editora y/o autora han sido reseñados en la revista Siempre!, en el diario La Jornada, y en las revistas especializadas de literatura como Ciclo Literario, (México y España) y en medios electrónicos como Periódico de Poesía de la UNAM (México), entre otras de latinoamérica y Estados Unidos. También ha publicado narrativa en la sección literaria de la revista Playboy México y Playboy Colombia.





Del poemario Plegaria a un cuerpo, Editorial Patético, 2013.




Pordiosera

Amanecí fresca y dichosa.
Cínica como pordiosera extiendo mi mano.
Dame un beso.
Estos labios de sed
son tierra fértil
donde viven y mueren
los secretos del cielo.

Vamos a fornicar.

Es tan dulce tu boca.
Tan jóvenes tus dedos.
Tiemblas.
Es el delirio del hombre que espero.

Te mueves como pez
en el agua de mi cuerpo.
Fosa oceánica.
Mar abierto.
Has caído en mis brazos
justo a tiempo,
cuando la vida se ríe
nuevamente de mí.

Muerdo tus pezones
de miel
y tu mirada
me la unto
en mis ufanos 26 años
y soy feliz.

Voy a cantarte en las noches
en que robas mis sueños
como a un fantasma
que apenas recuerdo
pero que me penetra
y me posee en silencio.









Plegaria a un cuerpo

5

Mi cuerpo,
que es puro.
De veneno y polvo.
Imperfecto.
Hijo de dioses y furias,
te acaricio lentamente
porque yo en este mundo,
no tengo más.

Hemos cruzado juntos
el umbral de la muerte
y a estas horas de la noche
nos toca bailar.

Soy dueña de este cuerpo.
Usurpadora de este cuerpo.
Y sus lamentos,
yo
los convierto
en poesía y sal.

Como fiel espectadora de mi propia existencia,
lo he visto ahogarse, mentir, temblar, reír, volar, parir, resucitar.
Yo misma lo he limpiado con yerbas.
Y lo he visto acostarse con el mar.
Bañarse en amor.
En sudor de amor.
Y correr desnudo y fresco
a la hora de amar.
Manjar de cosecha exquisita
de carne, de ríos, de lava de volcán.
Este cuerpo que ven aquí, señores,
es inmortal,
la sangre que brota en sus raíces es poesía,
y se siembra en tierra firme,
se pega en las pupilas
o se deleita en el paladar.

Las manos que amasaron este cuerpo
y el aliento que lo echó andar
lo mantienen vivo
y lo ponen a cantar.

Y ésta es la plegaria que ofrezco,
porque yo,
en este mundo,
no tengo más.






La primera visita

Es tan fácil entregarse.
¿Por qué no habría de serlo?
¡De nada tengo que huir!
¡Tómalo todo!
Siempre habrá más.
Soy quien multiplica el vino en la fiesta.
Vivo entre las tempestades
y siempre hay algo en mi mano
para ti.
Camino desnuda
y nunca me falta abrigo
que darte.
Para mí es tan fácil entregarlo todo.
Con la mano en la cintura
te recibo de pie junto a la cama:
Este cuerpo es tu casa.
Generosa te pongo las nalgas
en la cara.
Una y otra vez
y toda la noche.
La noche eterna.

Es tan fácil quitarse la falda,
abrir las piernas
y ser la anfitriona
que no esperabas.






LA CIUDAD SALVAJE 

días y días recorren tu frente
¡oh ciudad salvaje!
he venido a conocer
la verdadera miseria
en tus calles.
a través de tus ojos
veo dolor, insomnio
y una eterna resignación,
hombres y mujeres,
aun los niños,
son tus soldados
enfilados,
decadentes.
millones y millones
visten, lloran y ríen
contigo,
para ti,
de ti,
pero sin ellos.

¡oh ciudad salvaje!

¿cuánto más podremos soportar?
¿cuánto más pueden  llevar tus brazos?
¿cuánta sangre más ha de correr por tus coladeras?
¿cuánto más podremos engañarnos?
¿cuánto más hemos de ver?
piedra sobre piedra cae.
el corazón se angustia.
piedra sobre piedra la esperanza me crece.
piedra sobre piedra
he de construirte
dentro de mí,
en miniatura,
la ciudad más bella
y sin arrugas
donde la gente
se mire a los ojos y reconozca algo.

¡oh ciudad salvaje!
estoy sentada a tus pies
acariciándote.








AFRIC McGLINCHEY [10.772]

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Afric McGlinchey

Afric McGlinchey nació en Irlanda y se crió en Zimbabwe. Es ganadora del Premio de Hennessy para la poesía emergente. Ha sido nominada para el Premio Pushcart. Sus poemas han sido publicados en Southword, Moth, New Mirage, Poetry Ireland Review, Scottish Poetry Review, Tears in the Fence, Wordlegs, the SHOp, Magma, Acumen, Under the Radar, Scaldy Detail, Crannóg and other journals. Afric writes poetry reviews for Sabotage, is a book reviewer for the Irish Examiner and an online tutor at http://creativewriting.ie/online-writing-courses/ y otras revistas. 

Afric escribe reseñas de poesía de Sabotaje, escribe la crítica de libros para el Irish Examiner.






Debajo del corazón, la forma de una herradura

nunca te conocí, danny murphy
pero sé que tenías un hijo de seis
y que christy te hizo
boca a boca y te apretó
el pecho, y cuando la ambulancia
llegó, siguieron una hora

y te sonó el teléfono
en el bolsillo
alguien que se llamaba kath
y me imaginé
una cita arreglada
y tú, tarde

y me imaginé tu futuro
saliéndote de la existencia
en el espacio de un auto que dobla
en el espacio de un caballo que se alza
en el espacio de un sol que se hunde
colina abajo.


The Lucky Star of Hidden Things, Salmon Press, Clare, Irlanda, 2012
Traducción de Jorge Fondebrider






Under the heart,
a horseshoe shape

I never met you, danny murphy
but I know you had a child of six
and that christy gave you 
mouth-to-mouth and pressed 
your chest, and when the ambulance
came, they continued for an hour

and your phone 
rang in your pocket
someone called kath
and I imagined 
a planned date
and you, late

and I imagined your future, 
trampled out of existence
in the space of  a car turning 
in the space of a horse rearing
in the space of the sun sinking
below the hill







pendulum 
mute as the wall,
four swings
into an envelope of light
which dissects glint and shadow
in the long neck of love where we play
breath and dash
thunder full
exploding maledictions
you reign in all the dark rooms of my fantasy
supersede every phantom lover in the longest night
hell's leviathans may swallow their revenge
for a glimmer
i become whole with expectation;
rush, night; i am ready






wayward 
(after Roethke) 

fingers red to ruin day
dreams appear through slow eye
of mud-soft needle, signal swift
surprise, then sudden swiping swing
to a blue and blackened dog -cloud 

pooled into a spreading lace,
blue-throated, long limbed tamarack
looms over lake, while sunset's cleft
breaks the tide of evening 

slow ache of bruising skin
muds you, cool and wavering
with hesitant hug of penitant
guilty of the silent crime
of biting cut and gloomy grin








eyes wide open 

your wide-eyed lies are plums,
their purple plumes
smoke and mirrors in the sun –
suddenly I'm sane 

not squeamish anymore
won't go vertigo, wallow
in a sink-hole, sallow
and sunless 

i'm revved as an engine;
even a smidgen of your sorrow
will be battered by a pair of drums
pounding a palindrome

on no






FERNANDO DENIS [10.773]

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Fernando Denis 

(Ciénaga, Magdalena, Colombia 1968). Ha escrito La criatura invisible en los crepúsculos de William Turner (1.997), considerado uno de los mejores libros publicados en Colombia durante el siglo XX, Ven a estas arenas amarillas (2004) y El vino rojo de las sílabas (2007). Su poesía ha comenzado a despertar interés dentro y fuera de su país, y su libro, La geometría del agua, publicado por Grupo Editorial Norma, presentado en la Feria del Libro de Buenos Aires, y en Maguncia, Museo de papel, grabado y estampa de Argentina, se está traduciendo al inglés, al francés, al alemán, al ruso y al bengalí. Contemporáneos como William Ospina (Premio Rómulo Gallegos 2008), Juan Gustavo Cobo-Borda y José Ramón Ripoll coinciden en señalar que Fernando Denis es una de las voces actuales más originales en la poesía de América Latina. Se preocupa también por el paisaje exterior, como el que contienen las tonalidades de la naturaleza. Algunos de sus poemas se inspiran en las pinturas crepúsculares de William Turner. La cadencia y la sonoridad de sus poemas recrean imágenes, músicas y conceptos decimonónicos como el prerrafaelismo, corriente artística de la era victoriana que lo ha impresionado; en algunos poemas como los monólogos de sus personajes femeninos, las voces tienen mucha fuerza íntima. La embajada de Colombia en Delhi y la academia de letras de la India, Sahitia Akademy, editaron sus poemas en inglés y lo condecoraron como el poeta más representativo de su país y una voz literaria sobresaliente de las letras contemporáneas.







MÚSICA

No solamente has sido música para encontrarte. 
También tu canto enrojeció los bosques donde fui forastero, 
donde bebí el agua dormida que reflejaba tu desnudez 
y los campos de uvas azules. 
Recuerdo que tu música en esas florestas era una piel. 
Música de Vivaldi, violines rojos, 
canciones de amor eterno, rojos aposentos para la ternura. 
Todos los pájaros de esta isla solitaria saben que tu música 
arrulla el silencio de la memoria mientras duermes. 

Y arde el rocío. 
Arden en la sombra de tu cuarto los felinos. 
Otra vez los gatos volvieron a tu sueño. 
Recuerdo aún qué albos eran al llegar la noche.
En los muros, en los tejados, 
las aves vigilan la luz de tu ventana, 
el sonido de tu voz 
Reflejando el tiempo en los cristales.





¿PUEDE EL ARTE SER INVISIBLE?

Aquello que te mostro la noche en su crepúsculo.
Tristán e Isolda 

Ya los sagrados mitos que conspiran
en el sueño del mundo te anuncian.
El tiempo invulnerable legó su clepsidra
a las estrellas,
y ese oro brillará toda la noche para urdir
otra y otra calle
cuya duración es mi miedo y mi esperanza,
mientras las horas cambian como el mar
y crece el verso que deberá acompañarte hasta el fin.
Los dos tallaremos en el instante,
en los colores del instante,
la forma que evocará nuestro destino
bajo el álgebra de Dios;
y será más virtuosa la soledad
cuando diga tu nombre,
y soñará el tiempo que ya te ha visto,
que eres igual a este abrazo inmenso.

Tú, con el mar ardiendo en los ojos, me dirás:
“Vine a mostrarte los colores de las cosas que sueñas”.

A punto de perderme en el incesante crepúsculo te diré:
“El color de perderme tus ojos después de haber leído Tristán e Isolda”.





LA CASA EN LA ARENA

¿Por qué no vienes ahora y miras
entre las acacias y los estanques
esta casa de oro viejo y de música
que levanté con un verso de Virgilio?

¿Por qué no tocas con tus lluvias,
con la sal de tus mares, con tus colores
traídos de regiones extrañas
la casa del sentido y del lenguaje?

¿Por qué no la decoras con tus palabras?
Mira la nube roja sobre la verdeante conífera
que arroja zafiros en el lago.
He habitado la soledad y la fiebre
en hermosos lugares
y en los espejos.

Entra en esta casa habitada por signos,
por sueños que han atrapado la densidad del mundo
y por niños que se esconden en tu mano.





RETRATO

Otra vez va creciendo la luna en la
sombra vegetal.
El sueño te despierta, anochece,
vives en los lugares donde respiro
y bajo la misma luz donde te leo.
En el espeso follaje sestea otra luz.
El otoño; más allá, detrás del río
que es fiebre y juventud, el mar olfatea
el tiempo de los cazadores de aves
del Caribe
con colores más vivos.
Un viento estremecido de luz y arpegios
deslumbra en las aguas tus ojos
y tu boca
a punto de pronunciar tu nombre.
En la soledad mortal de los que trafican
con pájaros 
y con colores,
el cielo enrojece 
en los sensitivos paisajes de tu memoria.
En las azules atmósferas de las colinas
del norte.
Una niebla de cobre dibuja
mis manos, después el pecho y el rostro
allí donde tu deseo me hará recordarte.





LO QUE REMEDIOS DICE 

Estoy tan sola.
La lluvia llora y esos amarillos en los árboles
son pájaros.
No sé por qué el mundo me mira.
Me asomo en las mañanas al cielo de Macondo
y entonces cae la lluvia.
El cóndor observa con sus ojos móviles
mi cabeza rapada.
Sé que hay un espejo que se parece al agua.
Soy hija de la forma de los colores
y Remedios me llama.
No me gusta ser mirada porque sufren
y aún cuando soy hermosa nunca me veo.
Aquí en este mi cuerpo de niña
¿está acaso el paraíso?
He buscado la fealdad,
pero en cada palabra que digo se mueven las aguas
y hay luz en los robles
y la memoria de los hombres se detiene.
Podría ayudarme dar belleza a los poetas
¿y que el amor sueñe conmigo?
Ebria de mi niñez, de soledad y tiempo
espero en este baño
donde mi desnudez se prepara
para ascender y hablar con el cielo.





LO QUE DICE UN ORNITÓLOGO PRERRAFAELITA

Pienso en mi dorado siglo diecinueve.
Aquí cada verso reclama entre bosques lujosos
Y delicadas cumbres de seda
Los imperiosos colores que visten a la reina Victoria.
Bajo el sueño de rostros de doncella
El relámpago enciende mármoles y espejos.

Pienso en el mar del siglo diecinueve.
En ese enorme lienzo semejante al mar
Que estremece el lenguaje.
Todo sucede infinitamente en el esplendoroso 
Plumaje de un pájaro.
Pienso en el pájaro que está en la punta del pincel.

Y escribo esto porque escribir no es más
Que una reflexión sobre la muerte.
Ante esta luz que reinventa mi psicología
Debo en seguida crear mi propio mito
O me veré perdido en el mito de alguien
Que no conozco.

Si el cielo muriera conmigo en mis ojos  abiertos
Borraría el crepúsculo.
Podría ofrecerla a la reina este puñal ensangrentado
Después de mi suicidio.

Pienso en la muerte del siglo diecinueve.
Muero, quiero entrar en la metamorfosis.
Arriba los pájaros trazan la muerte de mi pupila.






ESCUCHANDO A HOMERO

De una tela de Darío Ortiz.

¿Dónde han quedado las voces, oh sombra?
¿El mar que las trajo, el verso y el terror, dónde están?
Entre arenales cuatro hombres me persiguen,
cuatro rayos que no pueden ver mis ojos apagados
a esta hora en que Grecia espera ser iluminada.
Caerá una lluvia de oro para las mentes.
Yo hablaré entre los mármoles y las velas con la voz de las islas,
les daré mi nombre a las cosas que al mar entregué.
El mensajero de los dioses me trajo la lengua griega,
el sabio consejo de Ulises.
Me dolió la suerte de los guerreros bajo la luna
que todavía sangra en las orillas.
Oh musa, háblame.
Ya que me has otorgado la edad y la antorcha
pero también el laberinto,
dime ¿cómo puedo negar algo tan bello?
¿Por qué detrás de los libros viajeros
la rosa aún conserva la forma que le diste?
Oh noche,  espejo, mar incansable resonando como una cítara,
puedo hundirme contigo ahora detrás del viento
y ahogar mi voz en los colores como los pájaros.





JUANA, RECOGEDORA DE CARACOLES NEGROS

Cuando detrás del caro cortinaje que corrige la luz del sol
y la de sus ojos, se riega la noche,
ella sabe dónde queda la fuente de grandes caballeros
de mármol, y en la hierba del claustro
empieza a recoger los caracoles.
Son los caracoles negros de la isla de K.
En su canasto de luminosas antenas, aún respira el olor
del invierno, o el olor de una lluvia que trepida
cuando es verano.
Y recorre los cuatro corredores de cuatrocientos años
que a su edad tan breve conoce de memoria,
Ignorando el falso mapa, el falso arquitecto,
el falso dios que la espera en el umbral rocoso,
sin puertas, de la mansión donde habita.
La noche llamea y en sus columnas corren los sonidos;
en el segundo relámpago ella descubre la estatua de bronce,
la gran noche de brillo y asombro,
y entre sus cabellos de falsas olas marinas
deja caer los caracoles negros que se pierden, pero sus
reflejos quedan como un destello único
ante el que despierta de súbito, y el recuerdo
sólo es una luz.
Ella está de rodillas.
Se levanta.
Y regresa. 





EL RELOJERO EXTRAVIADO

Siempre va y viene esperando la hora, sube y baja
los doce escalones de la escalera circular
y luego bebe agua en la sala
en un jarrón antiguo que gotea doce veces cada
veinticuatro horas.
Después de la última campanada de la iglesia de San Juan
recibe en su jardín la lluvia
para llenar el jarrón, y vuelve a la sala, a su taller,
y entre arenales termina la clepsidra.





UNA CARTA DE CAMILLE CLAUDEL A RODIN 

A Flora Martínez.

¿Dónde dejamos las palabras que una vez
Levantamos con barro y madera?
¿Quién puede quebrarlas ahora que el otoño
revienta en los campos
y se oxidan los ríos y los árboles con otro
fuego más profundo? 
Hay algo de ese fuego en los muros del manicomio.
Hay mucha tristeza en esa fuente que mana
el agua del olvido,
no la fuente que vi en tus ojos cuando me besaste
y yo me ahogaba.
No creo que otro monólogo pueda decirlo,
no esa misma soledad embriagando
el delirio de estos colores. 
Dejo el cielo junto a los jardines de Francia,
en aquellos ojos tristes que me ven
cuando quiebro el horror que te hizo bello.
¡Oh Rodin! La muchacha en llamas se está despidiendo.
¿Cómo sabías que había gente dentro de esa gran piedra blanca?,
me preguntó un niño que me vio llorar
con su lindo gato en los brazos.
No sé lo que ocurrirá después,
no conozco otro infierno donde pueda esculpir tu rostro
sin que tu ambigua mente de piedra me haga daño 





PIRANESI, CANTO DE PIEDRA

Aquí, ya estás aquí, canto de piedra.
Se abre entre tus muros un golfo de ojos, 
lleno de cantos antiguos 
y de voces, voces antiguas que encienden los oídos del romano.
Aquí siempre esa silueta, esa mano de mármol 
recorriendo las calles, 
dejando un color violeta en los espejos, 
narrando las fuentes con susurros, 
los balcones y las azoteas con voz de madera, y enfureciendo 
los jardines con violines rojos después de la lluvia.
Nadie se ha sentido tan herido en Roma, nadie ha visto 
esa música incesante que se desangra en el crepúsculo.
En la piedra quedó el dibujo que arrastró el mar hasta la orilla, 
el rostro de una niña griega que iluminaron los relámpagos.
Sé que hay música roja en este otoño en los patios, en las arenas 
donde ella caminaba.
Piranesi soñó que dejaba la escultura en el desierto.
Y después en el mar de Venecia, en ese prodigioso 
laberinto de las aguas.
Herido por las simetrías, en un cuarto rojo habla con las sombras.
Las injurias recordándoles que su morada está en la luz.
Y se duerme en el suelo, rendido, sobre los planos 
ominosos de sus cárceles,
mientras en su cerebro se repite el bullicioso 
canto de los pájaros. 
En el sueño traza la geometría de las cosas, 
derrite las auroras de Italia sobre las ciegas imágenes.
Y siente su propio fantasma atravesando 
los jardines nocturnos como una luna,
en el huerto la unánime luz del crepúsculo 
deja tatuado al pavo real. 
Y él mira de nuevo el cielo esparcido como un campo 
en llamas. 
Acaso ese cielo cotidiano es un bosque milenario
y hay que llevarlo en los ojos, 
hay que llenar los ojos de memoria.
Y siempre despierta bajo la catedral en penumbras,
y los vitrales magníficos le recuerdan
el campo estremecido en la noche por las lámparas de oro. 
Abre su puño 
y descubre en su mano abierta el plano del laberinto. 





OTRA VERSIÓN DEL MAR

En los sitios donde la espuma teje su tela de araña, su manto azul,
su verdeante enciclopedia de luz y de sombra y de abismos,
el mar traza la geometría del agua,
y de su grave herida roja brota un crepúsculo manchado
de tierra y de cielo: gritan los acantilados de mármol, brama el mar
en el cuenco y en la palabra, en la luz de su tumba,
lima sus lenguas y sus dialectos de oro,
y su oro estremece mis días en la orilla, mi desesperada biografía de escribano,
mi cansada geografía de parajes anónimos,
de bosques y llanuras junto al violeta salvaje
donde deja sus huevos el pez leñador,
estremece mi tiempo alucinado de fabricante de relojes de arena,
los pájaros que llevo dentro en mi vida de árbol,
los nombres que llevo grabados para siempre
en mi vida de piedra.





UNICORNIO

Hay un mar detenido junto a la página gris
de San Juan de la Cruz,
hay un color violeta trenzando dos fuegos,
anudando los sueños del domador de serpientes,
hay una herida en el recuerdo del pájaro carpintero,
en la madera de sus violines,
hay un espejo en el fondo de un arroyo,
hay un sable ensangrentado, un jinete de bronce que llora
y una lágrima en la piel de un caballo,
hay una risa en un sótano,
hay un negro caracol que baja las escaleras de caracol
de un templo,
hay un ejército de salamandras esperando a los romanos
junto a la hoguera,
hay un cielo de octubre sobre una lluvia de marzo,
hay un cántaro en la noche lleno de rojas cigarras.
Y detrás de estas imágenes
te veo a ti desenredando tus cabellos
del cuerno del unicornio.





EL HEREDERO

Mientras hablo el lenguaje de los trece alfareros junto a tu puerta
para darte la vasija del agua que te bañe, el canto de barro y el amor,
mientras hablo el idioma de las siete reyes ansiosos
que me envían con sus cartas,
mientras transcribo las fórmulas de los cinco alquimistas que llenaron
mi bolsa de oro,
mientras soy el mensajero de los doce apóstoles que me envían
a traerte la palabra, el bálsamo del mundo,
yo soy el hijo del lenguaje y verás en tu palabra mi esplendor:
en el vivo y refulgente plumaje del ala del pájaro seré un color,
en la margen del rio de escarcha y de fuego seré una huella,
en el oro terso de la empuñadura de la espada seré el brillo,
en el espeso follaje del bosque donde alucina la mandrágora
y hiere el espino salvaje, seré el crepúsculo,
en la cadencia misteriosa de cada gesto tuyo seré la caricia.





VERANO

En colaboración con William Ospina.

Un cielo me habla de otro cielo,
una luz que corrige las horas,
los gritos de la roca del sacrificio,
alucinado pastor de sueños.
Atravesemos el huerto del ahorcado.
Despacio, es por aquí el camino al puerto
y a la nave.
Tus pasos resuenan en las islas.
Habrá otros azules,
otra forma de mentirles a los rojos espejos.
Con sal en los labios he de recitar cada minuto de tu huida,
cada parpadeo tuyo junto a los lagos,
cada asombro bajo la encendida cabellera,
bajo el tumulto de los bosques.
Al alba ya ladran los mastines de piedra,
graznan los cuervos polvorientos.
Quema todo tu oro en nuestra sangre, oh verano.





CINEMATÓGRAFO

A Carlos Mayolo y Pacho Bottia.

Todas las imágenes del mundo
en un cuarto vacío, en un alucinante
salón de sueños.
Todas las palabras reunidas
en unos labios que quieren dar
con el verso que retenga
para siempre
tu primera imagen.
Todos los lugares pasan como el sueño
como si estuvieran en cintas negras,
en la extrañeza de una pared
donde empieza el mundo...
Poco a poco va creciendo una música
que durante siglos arde
y devora el tiempo.
Todas las imágenes que no conservan
en sus cámaras los espejos
vivirán para ti algo
más hermoso que la vida
y te darán los ojos.





¿AMAZONA O WALKIRIA?

En las orillas de tus ojos, en las orillas de los ríos, la noche trascribe tu memoria.
Yo recojo los restos de luz y de sombra y de colores que al alba me regalan los bosques.
Bajo lentamente por el canto de la llama y me detengo  en la soledad de tus manos.
En tus manos levanto mi carpa. En tus manos leo la historia del mundo.
Tu nombre me trae los murmullos de una ciénaga remota al atardecer,
sus fábulas  envueltas en papiros de sal bajo los almendros de las playas,
su olor a hierba quemada por  relámpagos, por crepúsculos, por salamandras.
Los manglares gimen bajo el rastro de tu mirada, bajo el rastro de tu sueño,
mientras la noche abreva tus caballos en un verso de Richard Wagner.
Quiero ser testigo  de tu  imagen en el agua, del agua de tu desnudez  invasora,
busco tu imagen tallada en el agua que baña los sembrados,
las espigas de oro viejo que a  mediodía se vuelven llamas,  
los platanales donde verdean  y las nubes,  los pájaros, el espino y  la soledad de mi madre.
El  cielo  baja con sus rojos leopardos y con antorchas  hasta tus ojos.
Yo me acerco  muy lentamente  al borde de tu cuerpo desnudo y brillo,
leo la sed guerrera en tus labios  luminosos,  abiertos a una roja palabra
y  lleno  mis cántaros vacíos  con tu  agua y con tus  besos.





ELVIRA

Se han roto los muros del amor, se han roto los espejos.
Bajo la conciencia del mundo aún vive el iris y la flor.
En la negra noche,
aún respira la canción salvaje en el  pecho del árbol
y el rojo bebe sus otoños,  y junto a ese bosque
donde la verja y el tiempo tienen su crujido, 
al pie de la tumba donde muere la noche
mi aliento de fuego no borrará la escarcha, mis manos ansiosas 
no tocarán tu ceniza; 
inútil serán para nosotros ahora las candentes plegarías tuyas
que en mucho tiempo quemaron mis oídos,
inútil el verso blanco en la negra noche, Oh hermano.
En alguna geografía del sueño
mi amor enfermará de amor como el tuyo, mi amor
Erguido bajo los inviernos deletreando lo incomprensible,
Tejiendo la madeja de la sombra para cubrirme del frío.
¿Dónde descansar el llanto y el deseo de diluirme con tú
En un verso?
¿Cómo apartar estas piedras, esta oscuridad, este miedo?
Ya el  azul  distante que tú nombrabas 
se ha vuelto una gris tormenta, un paisaje muerto
donde me despierta el graznido de sus cuervos.
Aquí estaré hasta que amanezca, hasta que el luto cierre mis ojos.
No bastará el mar para ahogar esta soledad, 
ni estará la estrella en lo inmenso para guiarme hasta la puerta.
Beberé insaciable las horas de este día misterioso, su miel delicada 
hasta que brote un capullo en mi garganta de tanto hablarte,
de tanto suplicarle a la piedra.
En tu corazón hambriento habrá un  sitio para mí 
al lado de una bala,  en ese complicado laberinto 
donde duerme el ruiseñor 
y al amanecer te regala su música inmortal.





JUANA

Usted no conoce las criaturas que atraviesan estas aguas en la noche,
no conoce las sombras que escriben en la orilla.
Bajo la rojiza cabellera del sauce
la luz va buscando su forma, va tocando con sus nudillos
los portales del  sueño,
camina con paso sereno de luna llena
hasta que penetra en mi buhardilla.
A la hora en que las barcas dormidas apagan sus velas
yo enciendo el arpa de ónice,
y mientras la noche va esculpiendo sus sábanas blancas
en los bosques,
en las casas donde el búho contradice el silencio  de los que duermen, 
el brillo de mi música va dejando caracoles dorados sobre la playa,
vientos que encienden el nácar de las cosas, el azul de las piedras.
Es verdad que pocos me conocen, casi nadie, sólo algunos
que no pueden vencer la curiosidad.
Soy una niña que viste de azul, que busca en la noche la caverna
donde el viejo cazador de libélulas
guarda las monedas de plata, la roja ouija de plata;
esa tabla que sirve para hablar con los muertos.
Si usted supiera cuántas cosas del otro mundo se esconden detrás
de mis palabras, cuántos misterios dormidos bajo las estrellas;
y  cuando cante el gallo, al alba, si usted fuera mi amigo, 
yo le mostraría los  poemas que me regala la que vive más allá 
de los manglares rojos, la mohana, la mujer del agua.
Parece que estuviera loca, por sus alborotados cabellos;
más de una vez la he visto cantando, arrojándole piedras
preciosas a la ciénaga.
Y  bajo la luna llena no hay una mujer más hermosa.
Dicen que nadie la ha visto, nadie en estos antiguos, reverdecidos
parajes de la tierra.
Dicen que son cosas mías, cosas de niños.
Pero yo la llamo con mi arpa de ónice, con mi música
que brilla en  la niebla





POEMA DEL CAZADOR DE AVES

Es  probable que el otoño ya haya madurado sus  hojas, que  haya enrojecido
los bosques y en las orillas del Magdalena  el viento recoja sus cáscaras doradas.
A esta hora ya debe ir detrás de tus huellas,  detrás de la fosforescencia 
que tus cabellos arrojan sobre los prados. 
En invierno yo buscaba tus ojos en los pantanos, tu risa de agua inundando
las estancias vacías, los estanques rebasados de colores  del otro mundo,
mientras abajo, en el  claro taller de metal y fuego, yo forjaba mi arma
para raptarte.
¡Cuántas veces pude encerrarte  con mis pájaros y siempre te me escapabas!
La noche urdía  su misterioso  destino, te vestía de luz y de sombra para que los astros
bajaran hasta tus manos blancas y te calentaran el rostro. 
¿Cómo puedo amarte si corres todo el día de un lado para otro y no logro detenerte?
¿Cómo besar tus labios llenos de canciones remotas, de sagas que repites  junto a los lagos,
de poemas  celtas que recitas de memoria?
Al alba me despierto ebrio en los graneros,  con mis ropas sucias por el hollín 
de la madrugada, y el aroma del mar me recuerda tu aliento,
Entonces me enveneno otra vez  de ti, de tu pureza infinita,  de tu ternura de árbol,
Y me arrojo a buscarte.  





EL PAJARO LECTOR

William Ospina  le contó a Juana la historia  del pájaro lector.
Era un animalito de dos patas y dos alas con cara de niño,
y ojos con ojeras marrones como anteojos.
Se comía la letra B de los libros de la biblioteca de Alejandría,
antes del incendio.
Cada día había menos libros en los estantes con la letra B.
¿Y por qué no se comía la doble V, por ejemplo?,
preguntó la niña, intrigada, con los ojos muy abiertos.
William  le respondió:
Juana, la doble V es un veneno para los pájaros lectores.





HIJA DE LA CIÉNAGA

El viento sobre el mapa me dicta tus pasos, la geografía que inventas
a cada instante.
Yo sé los rumbos, las puertas cerradas que se abren en otros versos,
y  en la mano tuya aún veo los astros, el tarot de tus huellas y tus lunares,
la estrella escrita en la plenitud de tu destino, 
la callada geometría de tu tacto sobre el mundo.
Soy hija de la ciénaga
y  en tus sueños resplandece mi larga cabellera de agua.
Podría decirles  que el amor estuvo aquí,
y que su verde enredadera te envolvía poco a poco
mientras la piedra te convertía en una estatua.
Oh, forastero, tú que trenzas la aurora 
y con magia en los labios sedientos me nombras;
tú que también enfermas de esplendor  mis oídos y mi noche, 
mira las sílabas tuyas  volando en las ramas, 
mira tu laúd de fuego durmiendo en las torres.
¿Cómo te digo los límites donde me oculté para soñarte,
la insaciable luna que gastó su moneda roja  en las playas?
Nunca te vi,  pero sé que en las noches mi música encontrabas;
mi mano se alargaba para llevarte en la espesura,
para ser guía y canción como Virgilio.
Acércate a la orilla,  alza la llama hacia tu noche.
¿Cuántas veces la letra en el agua  ha herido tus retinas?
¿Cuántas veces la ola  ha vociferado el nombre de su hija
bajo un cielo sin murallas?
La gitana del mercado de aves te dará el animal nocturno, 
te dará la aguja que te lleve entre las sombras desnudas
hasta el alba de cal y cenizas, 
y espera a que despierte tu laúd junto a los manglares
y podrás encontrarte conmigo.





AJEDREZ

Blanca o negra la tinta
con la que escriba tu nombre
siempre ganarás nuestra partida.





ATRIO

Escribo para que la luz de la escritura grabe en el sueño la voz de la piedra, 
la voz del espejo quebrándose bajo el invierno de las ciudades, 
la voz del rayo en la sombra del animal salvaje,
la voz antigua que perdura  en el arte, 
en la mano cóncava que me devuelve su imagen sobre el papel en blanco,  
ya convertida en luz y en palabra.
Velo junto a  la  palabra y quedo  rendido en su regazo, en su cóncavo reflejo, 
y allí sueño que soy  el mismo que viaja a diario entre sus verdes y amarillas metáforas 
como un pájaro, que canto y mi  voz medita  bajo su llama.
¿Cómo entrar al poema? ¿Con qué manos para esculpirlo, para levantar su torre? 
Abro el mapa, busco la geografía de tantos años, tanta luz escrita en las sombras, 
y más abajo, a orillas de un mar casi abstracto, detrás de un patio con dos palmeras 
que dialogaban sobre el tiempo, allí estaba yo hurgando en los cajones, con mi linterna de niño o con una vela encendida  navegando en las tinieblas de mi cuarto 
en busca de un papel y un lápiz.
La historia de mi vida es casi la historia irregular de mi poesía. 
Sólo escribo para preservar un carácter, para intimar con una dignidad y una conciencia 
que congenie con la belleza del mundo, y en ocasiones capturar ese esplendor antiguo, 
esa magia única que sólo se percibe a través de la creación 
y que me devuelve el deleite de sentirme un verdadero hombre. 
Cada página requiere una proeza, una curiosa habilidad que represente una vivaz, 
una poderosa y sutil presencia del lenguaje, 
un temperamento agudo capaz de templar su violín 
y escuchar al ángel que está detrás de todas las cosas. 
¿Quién puso esa música en mis oídos desde muy temprano? 
¿Quién me visitó en las noches del trópico 
con la música del verso que enfermaría de esplendor y belleza mis oídos para siempre? 
Mi historia es casi la historia irregular de esa música, 
el secreto de sus imágenes esparciéndose  por las arenas de la playa como un rumor antiguo.





EL ESTANQUE DEL AHOGADO

¿Ves a esta hora las lámparas en el barro, las piedras blancas
Erigiendo leones en la sombra, las aguas esculpiendo
Montañas azules llenas de pavos reales y de astros,
El cielo con sus rojas heridas descendiendo sobre tantas rosas,
Sobre tantos oros enfermos,
Y el viento que agita el bosque desnudo, tortuoso,
Y muerde los almendros, y barre una casa 
De viejo color amarillo?
¿Ves los jardines vigilados por murciélagos,
Entre las verjas oxidadas, entre los matorrales,
Una cabeza de mármol en las manos de una niña,
Un fuego antiguo en sus ojos azules
Donde arden las islas, los desmesurados valles rojos
Que custodian halcones, y lunas, 
Y un cielo atrapado en dos arcos?
El alba se vuelve un abandonado granero en llamas,
Un sueño del paisaje, y después un zafiro.
Detrás de las arenas movedizas, detrás del mar y el trueno,
La tela resplandece, 
Brillan los violines de plata junto a la tumba,
Caen otros colores destrozados por el día
Y manchan un bello crepúsculo de Virgilio.
Mira esta música, este derrotado cuerpo, este rumor nocturno
Que busca tu mano de nieve,
Y sueña que corres  tras el increíble otoño que sangra 
Millones de estrellas
En el fondo del estanque donde estáticos tus ojos me miran.





MENANDUS

Hay un recuerdo entregado a la fiebre,  a la noche 
entre sus negros arbustos, y una bella arqueología de barro
emergiendo de tus manos diáfanas.

Despacio, debajo del siglo de Van Gogh,  arde
el último girasol, el más estimado color amarillo
sangrando junto a los rotos zapatos de un campesino
de Arles.

Y poco a poco, emergiendo del aire enfermo, 
una  oxidada luna va devorando las orillas  del autorretrato,
y él murmura en la sombra 
que entre el lápiz y el papel
hay un sendero que conduce al pozo donde el  azul piensa
en el violeta,
donde la que  dibuja en los espejos 
esconde sus bodegones llenos de iguanas. 





ABSTRACTO DE LA LECTURA

Se abre la noche, se cierran las puertas del mundo.
Donde otros seres habitan la enfermedad de tus espejos
otra noche va quemando sus orillas en hojas del árbol
de la demencia.
Colores aún no inventados por el fuego escriben en tus páginas
la ciudad que no recorriste,
sin letras, sin párrafos en los ojos del calígrafo.
El mar que ha dado memoria a tu olvido en los grabados
lentamente se ahoga en tu cuarto sin sombra.
Dormido ya sobre dibujos alucinantes,
sobre la geografía pintada del amor imposible
leerás con la lupa la luz del otro mundo,
la irrefutable luz que te borra del papel en blanco;
pero escuchas su bramido,
la soledad de aquel que te espera en los estanques,
en las cobrizas trampas de los sótanos,
ese mismo que trazó la mentira sobre muchos mapas
y escaló los muros y los arduos metales para robar el libro.
Entras de nuevo en la noche, en su roja sangre 
que arde como tinta en tu cabeza.
Entras en su bosque medieval
lleno de pequeñas criaturas que te leen 
en una lengua desconocida
la escritura del doble.









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