Alberto Mario Moriconi
Alberto Mario Morioni nació en Terni, Italia en el año 1920, murió en el año 2010.
Penalista, poi docente di letteratura drammatica all’Accademia delle Belle Arti di Napoli, pubblicista: in particolare, critico e rubricista culturale de Il Mattino. La sua opera poetica: Vortici rupi mammole (Gastaldi, 1952), Trittico fraterno (Ceschina, 1955), Anno Mille (Rebellato, 1958), Le torri mobili (Guanda, 1963), Dibattito su amore (Laterza, 1969), Un carico di mercurio (Laterza, 1975), Decreto sui duelli (Laterza, 1982), Il dente di Wels (Pironti, 1995), Io, Rapagnetta Gabriel - e altre sorti (Pironti, 1999), Non salvo Atene (Pironti, 2007), Un autocommento discreto (Liguori, 2003), La trilogia tragicomica - Dibattito su amore - Un carico di mercurio - Decreto sui duelli (nuova edizione a cura di A. Maglione, Pironti, 2011). Sue opere sono state tradotte in più lingue. Un’ampia bibliografia della critica dal 1952 al 1987 sulla sua opera è consultabile nel volume La poesia di Moriconi di Franco Lanza (Liguori, 1988, pp.137-153, preceduta da una rassegna della detta critica, pp.105-131); ed una bibliografia essenziale fino al 1998 in una serie di saggi (di Marcello Carlino, Elio Gioanola, Giuliano Gramigna, Niva Lorenzini, Francesco Muzzioli, Raffaele Nigro, Tjuna Notarbartolo, Antonio Piromalli, Giorgio Patrizi, Giuseppina Scognamiglio) su La poesia di Moriconi pubblicati da Nord e Sud (Edizioni Scientifiche Italiane, aprile-maggio 1996 e agosto 1998).
EL SAUCE
Rasgué a mi antojo esbozos
frígidos y fértiles
de victorias: he caído, consciente
de los malos pasos, armas y venenos gratos
al siglo
descartando regiamente
pobre.
Desnudo jovencito, de ojos agudos,
dado a los cachones precoz y arrojado
feroz a la orilla.
Goteando, jaspeado de luna
helada, me estremecía y levanté el puño
al halo de sangre, a las pitas
negras, que acaso eran enredos
de sierpes humanas, allá arriba,
al aullido a las garras de la maleza
negra, que me esperaba -
las oleadas galopaban a mis lomos.
Serpiente y toro, el león y la zorra
me vi alrededor a luz de relámpagos,
o divisé en mí, en al abismo de mí,
enardecido...
Y salió
de las tinieblas una sombra,
lenta, encorvada:
que me acalló sumisa; me envolvió en paños,
y cavó mi ira
en un pesado sueño sobre la fina arena.
Al alba
hasta soñé dulcemente: un nido
de hombre bueno, un comedor,
los hijos... Abrí las cejas
al sol alto: mamá me sonreía
al lado, el mar
un chapoteo de torrentito.
Sólo así disipados,
a veces, enemigos y acechos.
Conocí los despiadados
esbozos fértiles
de las victorias vuestras. Sólo
siempre escuchaba las elegías mías;
peanes pero de niños, silencios
de amplias necrópolis, por las vías Apias.-
Aquí estoy. ¿Fuerte, flaco?
¡Oh, qué fácil es agredir, dilatarse grama,
ortigas: abrirse flor,
es éste, áspero milagro!
Doblarse como el sauce...
¿De qué victorias rompí esbozos rígidos?
¿Caí, después? ¿Me rendí o vencí?
¿El sauce, llora, que tiembla
al ajeno correr undoso, y en alto
abriga tibieza de vuelos?
De cabeza el torrente lo deshoja
mugiendo, brinca, quiebra, roba, bulle...
y feble se detiene, luego, se vacía
en un gran campo de agua soñoliento.
(Del libro "Le torri mobili', Guanda)
TODOS EN LA CRUJÍA
Hermana Muerte,
sí, como una hermanita
que sierra los ojos al paciente, enfermo
del mal de haber nacido,
y lentas húmedas
pupilas vuelve a camas en que crujen
pesadillas, gimen amores,
lloriquean los primeros, adormilados, antojos
de los chicuelos.
Pasa
y suspira,
y aquí y allí apaga, y a todos, poco
a poco, de la
delirante crujía,
adormece.
Y Tú, Doctor, mañana nos visitas,
desnudos nos llamas...
¡Sin enojo...!
(Del libro "Dibattito su amore", Laterza)
DOS DEDOS
Da la mano a quien cae, y a quien se levanta, a quien sube
también:
y corra aéreo por la cuesta
florida:
hallará cumbre seca, desierta
la vida,
y a sí mismo alto en la nada
(así en la cuna oscilaba).
Y tú, dale la mano antes:
la desdeñará: luego...
Luego aquella frente dura, cera mojada,
tendrá falta de dos trémulos dedos.
(Del libro "Dibattito su amore", Laterza)
Traducciones por Vincenzo Josía
VITA BECERA DEL POETA
Meno
la vita becera
del poeta,
mi tengo il ceffone
o mal lo rendo,
tento
schivare il briccone e m'industrio
briccone,
scendo
nella mia stima, patteggio, mi
svendo.
Oh ma a quel nono patto
mi rizzo, rilutto, m'impunto:
strappo il contratto.
Sì sì, riscalo
la china.
Miserabile, porto
quel mio gesto d'oro in regalo
ai miei.
Con gli occhi a una cima,
rimbocco il mio sozzo angiporto.
(da "Un carico di mercurio")
URBANESIMO
Madre, tu hai sbagliato
tu m'hai buttato fra i cementi lisci*
ch'ero ancor gleba erbosa, senza
consentimento,
ch'ero ancor vento,
e per questi rigagnoli
- neve, ero, d'Appennino, -
ero aroma di pino, fra i miasmi
d'un addome di vicoli.
E non è a campo la tua sepoltura
nemmeno.
M'hai scodellato nella città laida,
che già ne aveva troppi, d'orfani,
con padre e madre vivi, sì proclivi
al canto molle e allo spuntato
lazzo e all'avvampo
e svampo immediato, gente
che "tene 'o core" (riposto)
"e 'o ca..." (non so) ma
d'altro niente,
come me.
Volevo a campo
la mia sepoltura.
* Morto mio padre, quando avevo cinque anni, mia madre si trasferì e mi trasferì dall'Umbria nativa a Napoli.
(da "Decreto sui duelli")
PESCE RONDINE
S'io fossi turchino
e più corto
sarei quel pesce rondine (celo
due, forse, aluzze vertiginose),
del pari attratto
da coste umane, e da oscuri
venti interni distratto, ritratto.
Né è più
l'età per la mia sete d'alto
mare.
Balzo a tre o quattro
metri sul viscido pelo e per cento
metri anch'io volo:
e il goffo
rituffo, in vista d'un molo
calcinato, in un liquido
letame.
Non ho né squame né ali
turchine,
son tozzo non corto,
pesce gregario sì, e solo,
nel fondo del tossico porto
di Napoli.
(da "Decreto sui duelli")
L'ETERNA RIMA IN ORE
(IL DISTACCO)
Solo chi non è amato
muore senza dolore:
il solo desolato
ch'ora si aspetta amore.
Ma io che ho amato e amato
e sono stato amato
e sono ancora amato
invidio il desolato
che senza un cane muore
accanto,
e sorride un compianto
al mio schianto d'amore
sognando amore, vita,
all'uscita da questa
sua vita camposanto.
(da "Io, Rapagnetta Gabriel")
PRIMO PARTO
E urlò e urlò contro metalli e usci
abbaglianti...
D'un tratto
bisbigliò: "Salvate lui."
(da "Dibattito su amore")
PRIMA GRAVIDANZA
(IL GIGLIO)
E Adamo ripeteva:
"Ma tu partorirai con gran dolore, eh?"
Ed un turgore guaente, un fumido
vermiglio lezzo
espulse
un giglio.
E ancora l'eiulìo, Caì Caì,
dell'inesperta, Caì... "No,
no, su!"
Adamo lo levò - "carino!..." - a Dio.
Caino, insomma.
(da "Dibattito su amore")
LE NUOVE SOLUZIONI
(PER MANZONI )
"Vuoi tu, Lucia Mondella, per tuo legittimo sposo
qui il signor don Rodrigo?"
E poi il divorzio. Mutar di prospettive.
- Mutatis mutandis... -
"A te l'anello e la pillola
anticoncezionale..."
- ... omnia munda mundis -
(da "Dibattito su amore")
FALLO
Silvia, rimembri ancora
Ecco quel davanzale
donde mi sorrideva gioventù
donde la gioventù.
E che fu il marmo tombale
alla tua verde virtù.
Eccole quelle scale
per cui volavi tu,
e scivolasti male,
dissero: e bello fu.
(da "Dibattito su amore")
NO ALL'" INFERNO "
(PER FRANCESCA E PER GIANCIOTTO)
Virtù, anche tu fortuna.
Date a Gianciotto un vero stinco, o un arto
d'alluminio, di pròtesi perfetta: poi,
poi, menategli Francesca...
la ravegnana, che ignora, cui,
in batticuore, al cospetto, e il pudica-
mente ostinato occhio al suolo, di lui
primo apparì quel piè.
Le sbalza
l'occhio
le rotea...
e in quello
di Paolo, a un canto, svolò batté.
Fate a Gianciotto un piè dritto:
e lui ci pesta
peccato e delitto.
La trafiggeva (poi, trafitto...) il fresco
occhio cognato, mordace audace: "Pace,
ora, pace...
o suora..."
L'occhio ferito esplora
tutto in lui gaio e ritto.
Oh avesse, per bon'ora,
prima di quel ch'è torto
- nera virgineità! - lei scorto l'aspero
austero pelo o quella dentatura
guerrïera del Ciotto
o mensurato la muscolatura...
Virtù, pur tu
ventura.
(da "Decreto sui duelli")
MATTINATE DEL PADRE VEDOVO
Mezz'ora di sfizio, cent'anni di guai.
E voi mi vedete
sul mio cantone,
coi miei quattordici figli e figlie, ciascuno
alla sua magione.
Sfizio, mezz'ora: soffiavo "oh dimmi:
ma tu li conti?... "
"Certi momenti pure, coi conti?!..." lei, cara:
cara e così
di parto
se ne partì.
Facendo il pieno (sfizio) si va
lontano:
e crescitene quattordici!...
E busso là, l'ospizio, mi dà
una minestrina.
C'è una suorina
per chiamarmi
papà.
(da "Dibattito su amore")
LA DISOCCUPATA E LA MERETRICE
Essa dice dice d'un posto,
è riccia mora, la pelle scabra
[però avrebbe attratto
(ancora?...)],
forse le spetta (il posto),
confida, e l'amica nega, saputa,
nel viscido scendere, un'ansa
intestinale, della ventruta
tonitruante città.
Che forse, può
darsi, l'avrà, no?
"... Dio ssolo 'o
sape."
L'amica nega: "Con quelle cape!..."
"E nun sonco, vuò
dicere, mo, manco cchiù bella...
no?"
"Tu non si' quella che
si dà, cumm'io mi do,
me donco."
Scendono per le budella
della città (sfocianti
al mare, all'Immacolatella).
"I' nun dico 'fai male:'
nu 'o saccio fa'!"
"Porta l'onore - e cuntame -
a 'o monte di pietà.
S'impara, impara."
"E nun sonco cchiù chella
ca 'mparà può... Tu credi,
'cu cchelle ccape,
niente da fare'...?"
"Tu sei un'Immacolatella
che niente
d''o mare
sape."
(da "Un carico di mercurio")
LA PROPRIETÀ
Il giorno in cui distinsi
il mio
dal vostro, io persi tutto il nostro
immenso tutto,
il giorno in cui recinsi
andò distrutto
quel confine che c'era l'orizzonte
solo d'ogni vagare
nostro leggero incantato.
Così
io m'inibii con una
siepe
ogni monte, ogni mare,
per amor d'una zolla incondivisa,
su cui sol io picchiare,
friabilissima zolla.
E a chi tentò,
per ruzzo, inconsapevole
di barriere, saltare
picchiai in fronte; e a chi bere
poi volle alla mia polla, mia d'un tratto,
e sete e vita estinsi.
Né uno m'abbruciò la siepe, risero
i selvaggi di me, quel folle:
e il folle
moltiplicò le sue
zolle, le sue
zolle,
le sue...
I miti selvaggi ridevano!
(da "Il dente di Wels")
ELOGIO DELL'ECONOMIA
Con sua tale ossessione del risparmio, andava
spegnendo a sassate i fanali ai viali.
S'attenuò anche il lume degli occhi,
per la riserva al domani
- e apposta udì anche di meno, -
e il lume ch'è nei medii cranii,
e, ipoteso già, i pulsi minimi
dei cuori sani (non seppe oh degl'insani
l'alte tensioni, gl'irraggi e il bruciare).
Ovvio, ovvio, anzitempo defunse (consunse
meno giorni).
"Che sperpero di fiori..."
Riemerso dalla cassa, soffiò su tre candele.
(da "Il dente di Wels")